Dal 24 febbraio 2022, i volti e le voci del falangismo pacifista hanno avuto in Italia caratteristiche ideologicamente spurie, ma antropologicamente riconoscibili e tutte sospette di un prevedibile pregiudizio anti-democratico e di una paranoica coerenza, per così dire, anti-umanistica.
C’erano i rottami e i neofiti del fascio-sovranismo cirilliano e dughiniano, i combattenti e reduci dell’ortodossia anti-atlantica e post-stalinista e i professionisti dello spocchioso determinismo geopolitico che, dentro e nei dintorni dell’accademia italiana, ha sostituito i libretti rossi dell’escatologia comunista; c’erano i realisti e gli storicisti di ogni risma, irridenti verso qualunque pretesa di libertà e di diritto ed eccitati per il tramonto dell’Occidente, come fino a qualche decennio prima ci si attizzava per la caduta tendenziale del saggio di profitto del morituro sistema capitalista.
Erano e sono – non servono i nomi – personaggi non classificabili e neppure interessati a una classificazione secondo un criterio morale. Parlavano e parlano tutti a nome di una parte o di una fazione, di una scuola o di una dottrina, non dell’umanità stessa delle vittime e dei carnefici, degli oppressori e degli oppressi. Erano e sono i cultori e gli invasati della filosofia della storia, gli affaristi o gli entomologi della filosofia della guerra, non i profeti e gli apostoli dell’amore universale.
Questi ultimi, invece, campeggiano gloriosi di virtù e di talenti in varie liste presentate per l’elezione dell’europarlamento: candidati pacifisti alla costruzione della pace, cioè alla bastonatura dei pruriti europeisti dell’Ucraina e di tutti i Paesi ex vassalli dell’impero di Mosca. Però non sono cattivi, non sono cinici, non sono interessati, non sono prezzolati. Sono, indubbiamente, delle brave persone, animate da sentimenti di generosa benevolenza.
C’è la figlia d’arte della cura e del soccorso internazionale, volontaria degli ospedali da campo di terra e di mare, con gli oneri e gli onori del legato paterno appesi a una vita randagia e a un impegno febbrile. C’è il medico di frontiera, che per decenni ha aspettato sugli scogli di Lampedusa gli scampati ai naufragi, per suturarne le ferite dell’anima e del corpo.
C’è il giornalista cattolico ideologicamente ruiniano e politicamente francescano, ecumenicamente impegnato nell’aiuto ai derelitti, agli immigrati e ai carcerati e nella difesa della loro dignità. C’è il sindaco che ha fatto della solidarietà con gli ultimi del mondo un modello di accoglienza efficiente e fortunata, sia pure con qualche libera licenza amministrativa, che gli è costata un’accusa ingiusta di malversazione, da cui è uscito a testa alta. C’è l’imprenditore di successo, cattolicissimo ma non bigotto, filantropo e mecenate politico, dall’indole olivettiana e dall’insaziabile eclettismo partitico.
Tutta gente perbene, perbenissimo, fosse però per la quale gli ucraini sarebbero già tutti morti o tutti schiavi. Quanti di loro sbarcheranno a Strasburgo e a Bruxelles saranno la quinta colonna e il volto umano dei magheggi putiniani, gli utili idioti dell’autodistruzione morale dell’Europa e i volenterosi attendenti della carneficina del diritto e della libertà, oggi degli ucraini e domani dei prossimi candidati alla pace – i baltici, i finlandesi, i moldovi, i polacchi – portata dalle bombe e dall’ira del Cremlino.
Tutta questa brava, bravissima gente, pur di diverse provenienze ideali condivide il biasimo per l’irragionevole pretesa della libertà, cioè per la voglia di essere liberi, che è la sostanza politica occidentale del desiderio evoluzionistico di rimanere vivi. È tutta gente buonissima, che pensa però che la libertà sia sopravvalutata e che i cimiteri di pace, in senso reale e figurato, siano comunque preferibili ai cimiteri di guerra.
Nel loro oltranzismo dottrinario, non c’è solo la soggettiva e rispettabile indisponibilità personale all’uso della forza – Churchill durante la II Guerra mondiale, mentre proclamava che il Regno Unito non si sarebbe mai arreso, riconobbe il diritto degli obiettori di coscienza a non prestare servizio armato – ma c’è l’affermazione della inconciliabilità oggettiva tra l’ordine politico dello stato, di qualunque stato, e la lotta collettiva per la libertà.
Se nel pensiero nonviolento si riconosce che la sfida della resistenza disarmata è comunque quella di contrastare l’oppressore, intralciarne i piani e minarne il dominio – non di persuadere gli oppressi ad accontentarsi di aver salva la vita – nel pensiero pacifista ormai si afferma che la matrice di ogni guerra e la responsabilità di ogni bara è nella resistenza dell’aggredito e nel sostegno bellicista che questa riceve.
Il modello di tutti i pacifisti candidati a queste europee non è il Mahatma Gandhi, ma il pacifista francese Marcel Déat, che nel 1939 proclamò il dovere di «non morire per Danzica» e dopo l’occupazione della Francia da parte di Hitler finì coerentemente a fare il ministro del governo collaborazionista di Vichy.