In un caldo pomeriggio primaverile, nel cortile della redazione de Linkiesta, dopo aver guardato l’ennesimo post di una mia amica che si sta preparando per arruolarsi alle forze armate dell’Ucraina, ho chiesto ai miei colleghi quale mansione avrebbero scelto se l’Italia fosse stata invasa da qualche altro Paese. Le posizioni nell’esercito sono diverse, il ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov ha detto che le mansioni più richieste, in questa nuova fase di mobilitazione, sono quella di autista, meccanico e operatore dei droni.
Ho visto i miei colleghi, prima di dare una risposta, un po’ confusi e certamente li capisco, queste non sono domande che di solito si fanno in pausa pranzo, eppure questi sono discorsi che faccio con i miei amici ucraini ogni giorno.
Questa è la mia realtà pur con sfumature diverse, più sicure, senza sirene che scattano a qualsiasi ora del giorno. Alessandro ha detto che avrebbe fatto l’autista, Fabrizio anche lui avrebbe puntato sui trasporti, Lidia invece avrebbe cucinato per i soldati, e ha aggiunto «uccidere le persone no». Dopo queste confessioni, ognuno è tornato a fare il proprio lavoro in redazione. Per loro, la mia domanda è stata solo un’ipotesi. Per i ragazzi e le ragazze ucraine della loro età è la realtà.
Voglio molto bene a Linkiesta e la considero emotivamente il mio posto sicuro dove non mi guardano strana per le domande che faccio, per i temi che discuto, e per le considerazioni sui russi che mi scappano sempre. Non augurerei mai a nessuno di loro di trovarsi nella vita davanti a queste scelte. Fanno un lavoro straordinario tutti i giorni, raccontando l’Ucraina come non fa nessuno in Italia.
Sullo stesso continente, a soli duemila chilometri, a due ore e mezzo di volo almeno fino a quando gli aerei volavano verso la capitale ucraina, i ragazzi della loro età vivono una vita diversa. Una vita dove sono costretti a conoscere tutti i tipi di armi, dove una parte dello stipendio va in donazioni, dove frequentano corsi di primo soccorso e di autodifesa, di tiro a segno e di guida in situazioni estreme, dove si arruolano, dove muoiono giovani e senza una vita sbocciata in pieno.
Sabato, al Salone del Libro di Torino, ho assistito a un evento straordinario: Paolo Giordano, l’intellettuale italiano più importante di oggi, ha letto alcuni brani dei suoi reportage dall’Ucraina a un pubblico di trecento persone, accompagnato dalle musiche di Brunori Sas.
Giordano ha avuto il coraggio di parlare di guerra nei giorni della campagna elettorale per le Europee in cui la questione della guerra viene manipolata da alcuni politici e ignorata da altri.
Le parole che ha letto raccontando i profili delle persone giovani che ha conosciuto in Ucraina («la guerra è sempre quella dei giovani», ha detto), non diventeranno mai virali sui social, ma le canzoni scelte davvero con cura d Brunori magari sì.
Seduta in prima fila, ho pensato a quanti in quella sala sarebbe arrivato il messaggio di Paolo Giordano, la poesia di Artur Dron, un giovane ventenne che lavorava per una casa editrice e che ora è un soldato, «arrivare alla fine/accerchiare le impronte./ Attenersi alla fine/ tenersi insieme», gli occhi spenti del soldato della fanteria, «quelli della fanteria li riconosci subito».
Durante la lettura Giordano si è chiesto che cosa fosse reale e che cosa no. Lui che sta nei pressi di Bakhmut o lui che una settimana dopo sarebbe stato sdraiato su spiaggia del Sud d’Italia. Anch’io alla fine mi sono chiesta che cosa fosse reale. Il cortile maggese con i miei meravigliosi colleghi che immaginano che cosa avrebbero potuto fare se il loro Paese fosse stato aggredito, o i miei amici ucraini che vedo addestrarsi o pronti ad arruolarsi, sullo schermo del mio cellulare?