Due mesi fa avevamo scritto della crisi diplomatica tra la Federazione russa e l’Armenia, raccontando un episodio dal quale si è sviluppata una frattura molto più seria di quanto potesse apparire a prima vista. All’epoca si trattava di una prima, importante, scossa interna alla coalizione politico-militare guidata dal Cremlino, data la presa di posizione inequivocabile di Erevan – storicamente fedele alla Russia e parte integrante del fu blocco sovietico – a cui sono seguiti i segnali di apertura all’Occidente da parte del primo ministro Nikol Pashinyan.
Ma all’epoca dei fatti non sono mancati quelli che hanno bollato l’intera questione come uno scontro circostanziale, riducendo il tutto a una diatriba tra alleati non dissimile dalle tante che avvengono tra i governi che fanno parte dell’Ue o gli stati che compongono l’Alleanza atlantica; per alcuni sono stati i propagandisti russofobi a ingigantire il tutto. Non era così.
Questa settimana Pashinyan ha dichiarato che l’Armenia è pronta a lasciare l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto). «Ce ne andremo» e presto «decideremo quando farlo», così il premier annuncia il disimpegno del Paese da quella che giornalisticamente è stata definita la «Nato russa», l’alleanza militare che riunisce alcune delle ex repubbliche sovietiche e che, secondo la retorica del regime putiniano, dovrebbe rappresentare il contraltare armato al fronte euroatlantico all’indomani dell’avvento del «mondo multipolare».
È così che l’Armenia diventa un nuovo scenario da monitorare nel quadro più ampio di conflitto diretto contro la Russia: alla resistenza militare ucraina, ai moti di piazza in Georgia e alle riforme radicali della presidente moldava Maia Sandu, si aggiunge l’azione politica del primo ministro Pashinyan che sta conducendo una battaglia (apparentemente solitaria) per sottrarre il Paese dall’influenza del Cremlino. Questo obiettivo va di pari passo con la ricerca di un accordo di pace nel Nagorno Karabakh nel tentativo di porre fine, una volta per tutte, al conflitto con gli azeri. È da qui, infatti, che si sviluppa tutta la vicenda.
Il mancato intervento alleato nella regione ha fornito all’Armenia la scusa per ufficializzare il ritiro dal Csto, accusata non solo di aver fallito nel processo di peacekeeping garantito dai vertici russi ma, stando alle parole di Pashinyan, «è risultato che i membri dell’alleanza oltre a non aver rispettato i propri obblighi contrattuali, stanno pianificando azioni di guerra contro di noi assieme all’Azerbaijan». Solo pochi giorni prima dello strappo di Erevan, il Cremlino aveva accusato l’alleato storico di non aver pagato i contributi richiesti dall’organizzazione sostenendo che già in passato la Russia e gli altri membri del Csto – Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan – avrebbero sopperito economicamente alle mancanze armene (accusa che il governo ha più volte respinto al mittente).
Ma la querelle finanziaria è solo il pretesto di entrambe le parti in campo. Abbandonata dalla Federazione russa, nel 2023 gli armeni hanno subito la feroce offensiva degli azeri che in poco tempo sono riusciti, dopo tre anni di guerriglia, a riconquistare il Nagorno Karabakh; il fatto compiuto ha portato gli armeni ad aprire il tavolo delle trattative con il governo di Baku e a compiere la scelta sofferta di cedere all’Azerbaijan quattro villaggi situati al confine. La cosa ha scatenato l’ira di una parte della popolazione che ormai da un mese sta conducendo una serie di proteste violente contro il governo centrale: alla fine di maggio, il ministero degli interni ha dichiarato che oltre duecentosettanta rivoltosi erano stati arrestati per insurrezione. Per questi uomini Nikol Pashinyan è un traditore, il politico che ha fatto delle imperdonabili concessioni territoriali al nemico di sempre mentre reprime con il pugno di ferro le voci dissidenti nel Paese.
È questa la linea ufficiale del movimento di piazza che però non è ancora capace di costruire un’alternativa concreta al governo in carica, avendo trovato, finora, come capopopolo l’arcivescovo Bagrat Galstanyan, personaggio pittoresco e incandidabile (nonostante la formazione di una lista elettorale a suo nome). Ad alimentare questa narrazione che dipinge i vertici di Erevan come una giunta repressiva che ha voltato le spalle al popolo e alla bandiera c’è la Russia, ovviamente. Per quanto non si possa dire con certezza che i moti armeni siano eterodiretti dal Cremlino, quest’ultimo ha più di un motivo per voler screditare l’immagine internazionale di Nikol Pashinyan la cui vera colpa, agli occhi di Putin e i suoi, è quella di essere passato nel campo avversario, soprattutto sulla questione ucraina.
Lo scorso trentuno maggio, una delegazione armena ha visitato Bucha per commemorare, assieme agli esponenti del governo di Kyjiv, il massacro perpetrato dagli invasori russi. La visita ha indispettito (eufemismo) Mosca che ha inviato al governo armeno una nota di protesta ufficiale dopo che la portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova ha commentato il fatto come «un passo apertamente ostile da parte di Erevan», ma le minacce russe non sono bastate a far rientrare l’Armenia nei ranghi.
Pashinyan ha rafforzato i rapporti con gli Stati Uniti, prendendo parte a esercitazioni militari congiunte e stabilendo accordi di cooperazione su difesa e ricerca, allo stesso tempo ha avvicinato il Paese all’Unione europea ottenendo un finanziamento di quasi trecento milioni per attuare le riforme necessarie per emanciparsi dall’orbita russa e iniziare a discutere seriamente di un possibile ingresso sull’Ue e anche sull’Ucraina, tema che per molti commentatori non era altro che un mezzo cinico per condurre il braccio di ferro con l’alleato moscovita, il governo armeno ha fatto una scelta di campo: in seguito alle iniziative che abbiamo raccontato su queste pagine, l’esecutivo ha inviato suoi rappresentanti alla conferenza di Berlino sulla ricostruzione post-bellica dell’Ucraina, confermando l’intervento umanitario di Erevan nei confronti di Kyjiv e il suo supporto alla lotta contro l’aggressione russa.
A rendere definitiva questa presa di posizione c’è un gesto politico difficilmente ignorabile: il giorno dopo l’annuncio dell’uscita dal Csto, Pashinyan ha dichiarato che non ci saranno più visite ufficiali sue e dei rappresentanti armeni in Bielorussia «finché Lukashenko resta presidente», un ennesimo colpo alla già fragile alleanza di Putin. Azioni come queste pesano enormemente, ma rischiano di venire vanificate dal sempre più realistico intervento del Cremlino – dalla guerra ibrida che sfrutta le proteste alla vera e propria aggressione militare – ed è per questo che ciò che sta avvenendo in Armenia non va letto come una parentesi effimera. Ora come non mai bisogna guardare ad Est e supportare chi combatte il regime putiniano sul posto. L’Europa non può sottrarsi a un compito storico.