Eterno imperialismoIl colonialismo russo è sopravvissuto alla fine dell’Urss (e continua ancora oggi)

L’Università Bocconi ha organizzato un seminario per ripensare la narrazione sulla Russia e sui i Paesi dell’ex Unione Sovietica, per evitare di rafforzare la concezione imperialista di chi raggruppa all’interno della stessa categoria esperienze nazionali diverse

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L’invasione dell’Ucraina ha fatto riflettere l’Occidente sulla natura imperialista della politica estera russa. L’Europa ha cominciato a capire che da secoli Mosca agisce come una potenza coloniale: i popoli soggiogati vengono privati della loro storia e della loro cultura, quindi della loro identità. Il processo di oppressione sistematica è iniziato con l’Impero zarista, proseguito con l’Unione Sovietica, e c’è  ancora oggi sotto la guida di Vladimir Putin, che oltre all’Ucraina continua a imporsi violentemente sui Paesi un tempo appartenenti alla sfera sovietica.

Questo avvio di nuova consapevolezza permette di riplasmare il modo in cui l’Occidente studia la parte del mondo che costituiva l’Unione Sovietica, e di eliminare i pregiudizi coloniali ormai radicati tra gli accademici europei cresciuti nel corso del monopolio russo di diffusione delle notizie e della storia della regione.

Il ciclo di seminari “Reshaping Russian imperial narratives: is decolonization enough?”, rimodellare le narrazioni imperiali russe: la decolonizzazione è sufficiente?, organizzato all’Università Bocconi di Milano lunedi 3 giugno, ha tentato di fornire una visione più oggettiva e globale delle implicazioni delle politiche coloniali russe, grazie al contributo di studiosi originari delle ex Repubbliche sovietiche.

Viktoriia Lapa, organizzatrice dell’evento e membro del Bocconi Lab for European Studies, ha spiegato che «con l’evento non si vuole cancellare la cultura russa, ma contestualizzarla tramite una lente postcoloniale che possa aiutare a chiarire le cause dietro lo scoppio della guerra in Ucraina», che ancora oggi non è del tutto evidente agli studiosi occidentali, che associano la fine dell’Unione Sovietica alla fine dell’imperialismo di Mosca.

«La ragione per cui si crede che il colonialismo russo sia finito con la caduta dell’Unione Sovietica è legata alla concezione dello stesso colonialismo sviluppata dagli occidentali», ha detto Yuliia Shaipova, del think tank di politica estera “Ukrainian Prism”, ed ex policy advisor del Parlamento ucraino. «La Russia si è imposta sui territori conquistati non attraverso un’accentuazione delle differenze tra i popoli, ma tramite una narrazione per cui le culture delle popolazioni annesse all’impero erano pensate solo come un sottoprodotto deviato della cultura russa».

Esiste poi il problema dell’internalizzazione di una serie di miti sulla Federazione in Occidente che toccano ogni ambito culturale e identitario, dalla storia, all’arte, alla cucina. E così chi studia l’Est Europa da esterno tende a vedere l’intera regione come una pianura omogenea e omologata, in cui tradizioni e peculiarità si sono fuse insieme. E che oggi convivono sotto un’unica identità ad ampio spettro, che è quella russa.

E da queste interpretazioni nascono i problemi in ambito accademico: il termine “studi eurasiatici”, che dovrebbe essere l’alternativa più moderna degli “studi post-sovietici”, rinforza in realtà la concezione imperialista per cui tutti i Paesi che sono stati colonizzati dalla Russia possono essere raggruppati nella stessa macrocategoria, senza tenere conto delle loro particolarità, ha aggiunto Shaipova. «Il concetto di “Eurasia”, che tra l’altro è sostenuto anche da Aleksandr Dugin, è l’ennesimo tentativo di cancellare le diverse culture dei popoli che sono stati annessi all’Unione Sovietica: solo in Russia esistono più di trecento gruppi indigeni. Quindi, come si può pensare di riunire tutte queste etnie in un’unica categoria?».

«Gli strascichi dell’imperialismo russo sono ancora oggi evidenti in tutto l’Est Europa, l’Occidente dovrebbe cominciare a riflettere sul loro impatto, soprattutto su chi ha vissuto direttamente la colonizzazione sovietica – ha concluso Shaipova – e per farlo si deve prima di tutto dare maggiore visibilità alle persone che da colonizzate, e non da colonizzatrici, sono state testimoni degli eventi che hanno segnato la storia dell’Impero zarista e dell’Unione Sovietica».

Questo tipo di testimonianze sono a oggi difficili da reperire. «Le autorità russe, fin dall’epoca zarista, rispondono a ogni tentativo di spostare l’attenzione sulle popolazioni oppresse – viste come una minaccia alla stabilità e alla stessa esistenza della Federazione – con violenza e repressione», ha detto Erica Marat, professoressa associata presso il College di affari di sicurezza internazionali della National Defense University di Washington.

E la causa di questa costante percezione di un possibile pericolo per Mosca è legata, sempre secondo Marat, a un complesso di inferiorità russo rispetto all’Occidente e agli imperi occidentali: «La colonizzazione dell’Asia Centrale ha trovato una giustificazione, nella mente dei russi, in una missione civilizzatrice verso i Kazaki, gli Uzbeki e i Turkmeni, visti come popoli arretrati. Allontanandosi dall’Europa, Mosca era finalmente maestra, e non schiava».

Per portare avanti questo processo di «modernizzazione», i sovietici hanno messo in atto politiche coloniali diverse da quelle eseguite nella parte occidentale dell’impero: «Anche solo per l’aspetto fisico diverso non avrebbero mai potuto trasformare tutti in cittadini russi a trecentosessanta gradi. Così hanno deciso non di trasformare le altre identità, ma di cancellarle. In molti casi hanno portato via le lingue, e addirittura i nostri alfabeti», ha concluso Marat.

Per recuperare la loro identità, dunque, i popoli dell’Asia Centrale hanno dovuto rielaborare i traumi causati dalla violenza dei sovietici per poter costruire un’identità nazionale quasi da zero. La carestia che ha colpito il Kazakistan tra il 1930 e il 1933, per esempio, è diventata un simbolo della tenacia del popolo e ha contribuito al discorso sulla costruzione identitaria, così come è successo in Ucraina con l’Holodomor.

Il recupero dell’identità nazionale negli Stati che hanno riacquistato la loro indipendenza dopo la caduta dell’Unione Sovietica, però, ha assunto caratteristiche diverse nei diversi Paesi. Per esempio in Lituania, così come nelle altre repubbliche baltiche, lo strumento più importante per la decolonizzazione è stato il riconoscere i crimini sovietici, ha spiegato Dovilė Sagatienė, ricercatrice per il Centro di Studi Militari dell’Università di Copenhagen.

«L’adozione del framework Ue “sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale” nel 2008 – che ha richiamato alle cosiddette “leggi sulla memoria” – è stata fondamentale per chiarire le diverse narrazioni sul ruolo di oppressore dell’Unione Sovietica nei Baltici», ha detto Sagatienė. Una scelta che, come precisa la ricercatrice, è possibile solo nelle società fortemente democratiche, dove la libertà di espressione può quindi solo essere parzialmente limitata a tutela delle narrazioni storiche veritiere senza rischiare una deriva autoritaria.

In Russia, invece, è venuta a mancare l’ammissione di un passato coloniale, seguita dallo sviluppo di una sorta di «senso di colpa» che contribuisse alla decostruzione della mentalità coloniale e imperialista all’interno del Paese. Ed è anche per questo motivo che ancora oggi Mosca opera secondo le stesse ideologie coloniali di un secolo fa, ha concluso la ricercatrice.

E gli effetti di questa carenza sono evidenti dal 2022, anche se la guerra in Ucraina non è che il tentativo più recente di Mosca di imporsi nuovamente sulla scena internazionale come potenza imperialista: a partire già dal 1992, la Russia ha attaccato militarmente Transnistria, Nagorno-Karabakh, Donetsk, Luhansk, Abkhazia e Ossezia del Sud.

«La ripetuta aggressione delle ex Repubbliche Sovietiche è stata possibile perché formalmente la Federazione ha sostenuto la stabilità e la pace di questi Paesi, e se ne è fatta promotrice. Nel concreto, però, il Cremlino ha sempre sostenuto i movimenti separatisti e secessionisti nell’intera regione», ha aggiunto Shorena Nikoleishvili, ricercatrice dell’Università di Turku, «e le istituzioni e i governi occidentali hanno tollerato questa contraddizione, portando alle conseguenze che oggi sono evidenti».

Le radici di questa narrazione altalenante si ritrovano nella fondazione della Comunità di Stati Indipendenti (Cis), basata apparentemente sulla collaborazione a livello regionale dei diversi Stati, sull’onda dell’Unione Europea. Con il passare degli anni, però, è diventato innegabile come «proprio la Cis, nata per garantire la sicurezza degli Stati membri, sia stata lo strumento grazie a cui la Russia ha potuto schierare il proprio esercito nei Paesi vicini con il pretesto di mantenere la pace nelle situazioni di crisi. E sono state proprio queste manovre a rinforzare la concezione occidentale secondo cui l’Est Europa sarebbe una zona fragile e caotica», ha detto Nikoleishvili.

«Negli ultimi anni ho percepito una sensazione sempre più forte di impotenza da parte della Georgia, il mio Paese, verso la Russia. E poi ho capito che questa sensazione di impotenza è comune a tanti altri Stati vicini, e che è sempre rivolta verso Mosca», ha spiegato la ricercatrice. Per eliminare questo senso di impotenza nelle società post-coloniali, ha aggiunto, è necessario un impeto che non può provenire solo dalla popolazione o dalla società civile, ma che deve essere sostenuto dal governo. E questo a Tbilisi manca.

In ogni caso, però, il framework post-coloniale oggi non basta per capire l’identità delle nazioni che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica. E soprattutto, secondo Yaroslav Hrytsak, professore dell’Università cattolica ucraina e Direttore dell’istituto di ricerca storica dell’Università nazionale di Lviv, non basta per capire il suo Paese.

Secondo il professore sarebbe invece più appropriato studiare l’Ucraina senza limitarsi alla lente del postcolonialismo, cercando di analizzare i problemi che oggi sono più pressanti. In particolare la necessità di riforme politiche ed economiche che rafforzino la democrazia a Kyjiv e sanciscano il passaggio del Paese a una società dove vige lo Stato di diritto.

«Se vogliamo eliminare i pregiudizi legati alla concezione occidentale dell’Est Europa, dobbiamo necessariamente staccarci dai framework tradizionali e oltrepassarli, perché oggi l’Ucraina esiste in un contesto post-post-coloniale», ha detto Hrytsak. «Anche se non possediamo ancora tutti gli strumenti necessari a raggiungere questo obiettivo, dobbiamo iniziare a muoverci nella direzione giusta. E il primo passo sarà sconfiggere la Russia».

Intanto, chi non si trova al fronte può iniziare a orientarsi verso una concezione più oggettiva dell’imperialismo russo: «È necessario approfondire, tra gli accademici occidentali, la nozione di Russkij Mir, “Mondo russo”, l’ideologia che da più di cento anni muove le decisioni di Mosca in politica estera», ha spiegato Tamas Vonyo, professore associato dell’Università Bocconi, «e da cui deriva la narrazione che vede la Russia come una civiltà, quella ortodossa, che include tutte le persone russofone e con una cultura simile a quella di Mosca». In quest’ottica, l’annullamento della nazione ucraina, georgiana, lituana viene in automatico. Questi Paesi non esistono, e devono unirsi alla Russia, che diventa nazione e entità sovranazionale.

«E infine, dobbiamo prestare attenzione ai termini usati per parlare degli eventi del 1991: se si utilizzano le parole “caduta”, “collasso”, dell’Unione Sovietica si giustificano le decisioni totalitarie prese per colmare un presunto caos e vuoto di potere negli Stati tornati indipendenti», ha concluso Vonyo. «L’unica parola appropriata per descrivere quello che è successo, anche dal punto di vista legale, è “disgregazione”».

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