Partiamo da un presupposto utilitarista. L’immigrato che accetta o si ritrova a lavorare in nero è evidentemente in grado di contribuire all’economia italiana, non è un peso e anzi, da un punto di vista soggettivo, è una persona che preferisce lavorare anziché dedicarsi ad attività illecite o parassitarie. Per un Paese in profondo declino demografico, con un deficit ormai strutturale di lavoratori, non è intelligente considerare un lavoratore straniero irregolare come un problema: è invece un’opportunità sottoutilizzata o male utilizzata.
Che l’economia nazionale abbia un enorme bisogno di manodopera straniera lo testimonia persino una scelta innovativa adottata dall’attuale Governo nel cosiddetto decreto Cutro del 2023: la previsione di permessi di soggiorno, in deroga al regime dei flussi, per chi frequenta corsi di formazione professionale organizzati da organismi pubblici o privati italiani direttamente nei Paesi d’origine dei lavoratori. La prospettiva è ormai quella di reclutare quanti più lavoratori possibili in quelli che saranno presto gli unici giacimenti residui di capitale umano (l’Africa e l’Asia, nei quali peraltro subiremo una fortissima competizione della Germania e degli altri Paesi manifatturieri che offrono salari maggiori dei nostri). Se la competizione per accaparrarsi la risorsa scarsa del lavoro è ormai iniziata, perché non partiamo da chi si è già in qualche modo autoselezionato come abile e interessato a lavorare in Italia, ed è già presente sul nostro territorio?
L’obiezione è nota: premiare chi è entrato irregolarmente, consentendo una facile regolarizzazione, sarebbe un incentivo a future irregolarità. L’obiezione avrebbe senso se esistessero veri canali legali di immigrazione economica in Italia, e non solo la folle dinamica del decreto Flussi: quote di ingresso fissate col contagocce dal governo di turno, per evitare che il populista di turno gridi all’invasione; l’idiozia del click day che esaurisce in pochi minuti i posti messi in palio, di cui peraltro meno del trenta per cento si traduce poi nella effettiva stipula di un contratto di lavoro.
Su tutto, c’è la più vergognosa delle ipocrisie: davvero continuiamo a far finta che imprese e famiglie chiedano con un click l’ingresso in Italia di persone sconosciute che vivono a migliaia di chilometri di distanza, e non – come è in realtà – immigrati irregolari già presenti in Italia che tornano di proposito nel loro Paese d’origine per poter rispondere alla chiamata? Cosa vogliamo simulare che sia questo meccanismo un sito online di appuntamenti al buio? Il sistema semplicemente non funziona e va ripensato, non solo per umanità ma anzitutto per utilità.
Come propongono i promotori della campagna “Ero Straniero”, serve consentire che la stipula di un contratto di lavoro favorisca la regolarizzazione dell’immigrato, senza troppo aggiungere. Un lavoro è un lavoro ed è condizione sufficiente. Sarebbe un’operazione di buon senso, un favore che faremmo alla nostra stessa economia e un appello alla responsabilità per migliaia di imprese e imprenditori – in ambito agricolo, edile, manifatturiero e non solo – a regolarizzare i propri lavoratori in nero. Nessun datore di lavoro potrebbe prendersela con la miopia delle leggi, a quel punto.
Accanto a questo discorso c’è poi l’umanità, perché nessun demagogo a caccia di voti facili può farci rinunciare ai nostri doveri verso il prossimo. Purtroppo ci si dimenticherà in fretta di Satnam Singh, fino alla prossima vittima di un imprenditore criminale. Purtroppo non basterà la dichiarazione di guerra al caporalato fatta dal Governo per estirpare la malapianta, occorrono azioni concrete. Assumere lavoratori irregolari conviene agli sfruttatori, non ai lavoratori. C’è da spezzare quel vincolo di connivenza forzosa che porta gli sfruttati a non denunciare gli sfruttatori, per timore di essere espulsi e di finire da un inferno a un altro inferno.
Qualche giorno fa il professor Ugo Arrigo ha fatto una proposta: concediamo il permesso di soggiorno all’immigrato irregolare che segnala il lavoro in nero e lo sfruttamento. C’è già oggi una norma – l’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione, pensato per lo sfruttamento della prostituzione e la riduzione in schiavitù – che consente ai questori di concedere uno speciale permesso di soggiorno per aiutare lo straniero a sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale, e di partecipare a un programma di assistenza e integrazione sociale. Aggiorniamo questa norma, estendiamone la portata a tutti i lavoratori clandestini assunti in nero o sfruttati dal sistema di caporalato. Si potrebbe inoltre prevedere la non punibilità per il datore di lavoro che a seguito della denuncia si redime e assume in modo contrattualmente corretto il lavoratore irregolare (modificando l’articolo 22 del Testo unico).
Diamo forza ai deboli e agli onesti, anche a chi sceglie di diventarlo. Diamo una speranza ai fantasmi, facciamo loro vedere che la bontà d’Italia – quella che la moglie di Satnam Singh non vede, e non si può darle torto – sta nella protezione e nella forza che la legge può offrire ai più fragili.