Cosa accomuna le notizie piccole e quelle grandi, le puttanate e le cose per cui bisognerebbe davvero indignarsi se l’indignazione non l’avessimo inflazionata, i cantanti americani e i braccianti indiani, gli esami di maturità e tutto il resto? Che si sono rotti gli strumenti di valutazione delle gerarchie.
Forse – sicuramente – è colpa dei giornali, che non più di precise parole vivono ma di clic furibondi, e nulla garantisce la furibondità dei clic come il dare la più semplificata versione di una notizia: la più approssimativa, sentimentale, buona per leggere solo il titolo alla fermata del metrò, potresti guardare TikTok ma guardi un giornale, non hai imparato nulla ma ti senti uno che s’è sforzato.
Fatto sta che l’altro giorno viene pubblicata una notizia atroce: vicino Roma un lavoratore indiano, dopo un incidente che gli aveva staccato un braccio, è stato abbandonato in mezzo alla strada. Ieri poi il lavoratore è morto, non esattamente un esito sorprendente: era normale leggere quella notizia e pensare che, se ti abbandonano amputato in mezzo a una strada, come minimo morirai dissanguato.
Io ho, come molti, pensato molte altre cose. Che chiamiamo multietnica una società in cui i Mimì Metallurgico che muoiono di morti orrende dopo aver vissuto vite orrende vengono dai sud del mondo invece che dal meridione d’Italia. Che il costo delle ciliegie c’importa più di quanto c’importi il fatto che vengano pagati dignitosamente quelli che le raccolgono. Che cianciamo di «genocidio trans» se qualcuno non obbedisce ai capricci identitari ma a nessuno frega niente dei diritti sociali (a meno che non siano quelli dei fattorini di Glovo, ma solo perché non vogliamo sentirci in colpa se non abbiamo gli spicci per la mancia quando ci portano la pizza).
La notizia che stavo leggendo parlava d’un morto che non era ancora stato dichiarato morto ma insomma come volevi che finisse, finirà così, con l’ennesimo incidente sul lavoro che fa notizia solo se la gestione è particolarmente goffa come in questo caso, o se a morire è un’operaia fotogenica. Il resto del tempo, ci sembra ben più scandaloso che un laureato in antropologia non possa mantenersi facendo l’antropologo di quanto ci sembri inaccettabile il modo in cui vivono quelli che raccolgono i cocomeri che pagheremo sette euro a fetta nel chiosco sotto casa.
La notizia che stavo leggendo veniva commentata, sul primo social su cui mi compariva, da qualcuno che si struggeva per i sentimenti, che ogni volta che lo vedo fare mi viene in mente quella scena dei “Favolosi Baker” in cui Michelle Pfeiffer dice che “Feelings” è come il prezzemolo, e lei intende “Feelings” la canzone, ma a me pare un editoriale che vedeva (il film è dell’89) il futuro, un futuro in cui invece di preoccuparci della sicurezza sul lavoro ci saremmo preoccupati dei sentimenti, di cosa provi, cosa senti, come ti fa sentire tutto ciò, in una gigantesca seduta di psicanalisi perpetua, prezzemolo sentimentale in mezzo ai denti.
Chissà come dev’essersi sentito, commentava quel qualcuno, qualcuno che probabilmente aveva capito che in questo secolo è molto importante dirsi empatici, qualunque cosa significhi, chissà come si sarà sentito, abbandonato in mezzo alla strada. Probabilmente, azzardo, in nessun modo. Probabilmente Satnam Singh non si è sentito in nessun modo, perché con un braccio amputato sei come minimo svenuto, hai perso tanto di quel sangue che proprio non hai tempo d’interrogarti sui tuoi sentimenti feriti, probabilmente, non vorrei essere troppo spregiudicata, ma mentre stai morendo in mezzo a una strada perché il posto in cui raccoglievi cocomeri non ha investito abbastanza in sicurezza dei lavoratori, ecco, in quel momento non hai tantissima voglia di partecipare a un panel sul rispetto della sensibilità di tutti: preferiresti, chiedo scusa se interpreto le priorità d’un morto, che il macchinario non t’avesse staccato un braccio, o che lì vicino ci fosse stato qualche professionista per riattaccartelo prontamente. Andava bene anche un professionista scortese e poco empatico, ma esperto in arti amputati.
Nel frattempo, sugli stessi schermi dell’indifferenziato delle news, schermi sui quali diversamente dai tg del Novecento nessuno dice neanche «e ora cambiamo decisamente argomento», i miei coetanei ce la menavano con la maturità dei figli e già che c’erano anche con la loro, perché l’invenzione della nostalgia è risolutiva per chi non ha mai avuto un problema serio (cioè: non ha mai raccolto cocomeri), ma è anche una buona soluzione per vite che sì, non conoscono il problema del sostentamento, ma non conoscono neanche le glorie delle generazioni precedenti.
I nostri genitori neppure sapevano che giorno avessimo gli esami, perché avevano vite piene, ricche, soddisfacenti; neanche si ricordavano su cosa li avessero interrogati ai tempi loro, perché nei decenni successivi qualcosina avevano combinato; nemmeno immaginavano d’aver messo al mondo dei perpetui diciottenni che trent’anni dopo sarebbero stati ancora lì a struggersi sullo zainetto Invicta e ad arricchire di royalties Antonello Venditti (che nessun altro abbia pensato a fare una canzone sulla maturità dice quanto pasciuto e non ambizioso sia questo secolo, nel settore cantautorale e altrove).
Noialtri, che non abbiamo più alcun senso della gerarchia, parliamo di un esame di diciottenni del quale una settimana dopo non fregherà mai più niente neanche al diciottenne stesso (a meno che non diventi scemo come noi) con un pathos da veri rincoglioniti. Ieri, verso mezzogiorno, in una riunione, una mia coetanea ha confessato che non aveva ascoltato nulla di ciò che era stato detto fin lì, «non riesco a concentrarmi finché non so che tema ha scelto mia figlia», e io ho pensato che non il servizio di leva, bisogna ripristinare, ma affidare a noialtri mollaccioni occidentali la raccolta cocomeri, poi vedi come ci si sistemano le priorità.
Intanto a New York Justin Timberlake veniva arrestato per essere stato fermato alla guida mentre aveva in corpo qualunque droga esistente, e persino su un’inezia così ovvia riuscivamo a dimostrare le priorità sbagliate.
I giornali sono subito partiti con la decodifica dell’Instagram di Britney Spears: questa foto in piscina significherà esultanza per i guai dell’ex fidanzato stronzo? Poi è arrivata la cronaca del poliziotto troppo giovane per riconoscerlo, povero Justin trasformato in Gloria Swanson. Ma insomma, sappiamo tutti che la cosa più rilevante che abbia fatto Timberlake è “Dick in a box”, che è uno sketch del 2006, sono passati diciott’anni, è come se alla me ventenne avessero chiesto di riconoscere Claudio Villa.
Se avessimo uno straccio di senso delle gerarchie, se la percezione delle priorità non fosse andata completamente a puttane, se avessimo abbastanza senso delle generazioni da distinguere i diciottenni dagli adulti, e abbastanza contezza delle classi sociali da riconoscere i diritti dei poveri e quelli dei ricchi, allora il dibattito pubblico in queste giornate sarebbe stato molto diverso, e saremmo stati in grado di farci la domanda giusta: cosa sei Justin Timberlake a fare, se non hai uno straccio di autista?