Dare valore al pomodoroDisegnare una filiera agricola davvero sostenibile (oltre la retorica del ritorno alla terra)

Al talk “Terra di Sicilia” del Sicilia Gastronomika Festival di Palermo, hanno partecipato tra i nomi più interessanti della nouvelle vague dell’agricoltura siciliana. C’è chi applica il design ai campi, chi ha scommesso sulla tutela della biodiversità, chi punta sull’e-commerce e sulla comunicazione social. Ma dietro tutto c’è la necessità di creare reti, superando la frammentazione delle filiere

(Foto: Luca Savettiere)

«Per parlare della produzione dell’olio, possiamo parlare del negozio della Apple in Piazza Liberty a Milano. Il negozio è stato fatto nel cinema più bello di Milano, l’Apollo, che aveva la programmazione più interessante, ma dove non andava più nessuno. Quando il cinema è stato venduto alla Apple, ci sono state proteste e cortei. Ma se volevi salvare il cinema, dovevi andare lì a vedere i film prima! Lo stesso succede nell’agricoltura. È la posizione del consumatore che stabilisce chi sta sul mercato e chi esce. Quale seme resta sul mercato e quale va fuori produzione, quale territorio fiorisce e quale si deprime».

Pasquale Bonsignore, designer e produttore dell’olio Incuso, usa metafore che provengono da altri settori economici per spiegare lo stato attuale dell’agricoltura italiana e le possibili soluzioni per risollevarla. Insieme a lui, al talk “Terra di Sicilia” del Sicilia Gastronomika Festival di Palermo, hanno partecipato tra i nomi più interessanti di quella che è una sorta di nouvelle vague dell’agricoltura siciliana (e del suo racconto): l’agricoltore Giuseppe Li Rosi, il fondatore dell’azienda agricola Passo Ladro Anthony Lops e il giornalista Salvo Ognibene. Tutti accomunati dal proposito di tornare a dare valore, culturale ma anche economico, al primo anello della filiera alimentare italiana, schiacciato da anni di ribassi dei prezzi e bassi margini di guadagno.

«È normale che chi ha fatto questo mestiere in queste condizioni spingerà i propri figli a prendere strade diverse», dice Bonsignore. «È anche da questo che deriva il dramma dello spopolamento dei paesini dell’Italia rurale». Negli ultimi quindici anni, in Italia ha chiuso il 30 per cento delle aziende agricole. E la retorica del «ritorno dei giovani alla campagna» interessa in realtà solo un piccolo numero di persone. I dati dicono altro. E dicono che sulle Madonie siciliane «ci sono 3mila ettari di seminativo abbandonato». E se in tutta Italia nel 1992 sono stati prodotte 600mila tonnellate d’olio, quest’anno la produzione è stata solo di poco più di 200mila tonnellate.

Che fare? Bonsignore ha scelto di applicare le regole del design all’agricoltura per ripopolare la aree rurali. «Il design non è maquillage», spiega, «ma è la disciplina che inventa, definisce e organizza la produzione industriale. Per cui per me è prima di tutto disciplina dei processi. L’agricoltura oggi ha un problema di organizzazione. Il mito della microproprietà o del vecchio nonnino che fa l’olio ha costretto in un angolo la produzione dell’agroalimentare italiano polarizzando le posizioni. Le posizioni più fragili hanno così perso forza contrattuale creando la situazione nella quale ci troviamo».

Il risultato è che «l’agroalimetare è stato colonizzato da logiche di natura finanziaria e ogni momento della catena di produzione è stato frammentato. Il contadino si preoccupa della materia prima, il trasformatore del semilavorato, il commerciante porta il prodotto finito sul mercato. In questa logica, il commerciante tende a raccogliere maggiori risorse sul mercato, concentrando i guadagni solo negli ultimi step della catena».

Una delle soluzioni è dunque rompere lo schema di questa frammentazione e creare delle reti. Non solo tra agricoltori. Ma reti di filiera. Giuseppe Li Rosi ci sta provando con “Simenza, Cumpagnìa siciliana sementi contadine”, associazione culturale nata nel 2016 per difendere la biodiversità siciliana. L’idea di partenza era di difendere la biodiversità cerealicola, visto che la Sicilia da sola conta 52 varietà di grani, cinque teneri e 48 duri. Ai cereali poi si sono aggiunti i legumi e gli animali. E oggi Simenza raggruppa circa 170 tra agricoltori, allevatori, trasformatori, ricercatori e professionisti, creando filiere corte che applicano un modello di agricoltura rigenerativa e sistemi di distribuzione sostenibile. Questa formula ha permesso di avere commesse da grandi aziende e ha dato quindi la possibilità agli associati di risolvere i problemi economici legati alla gestione delle imprese, spesso a conduzione familiare.

«Ho provato a restituire all’agricoltura e all’agricoltore il valore che merita, stravolgendo il concetto di compravendita», racconta Li Rosi. «Storicamente contadino e mugnaio sono stati nemici. Oggi stiamo riattivando un processo per far sì che ognuno continui a fare il proprio lavoro, ma insieme». E questa nuova filiera poggia su quello che Li Rosi chiama «campo di grano evolutivo». Che vuol dire che «non usiamo semi standard, ma varietà locali, mescolando decine di varietà di grani insieme e facendo della diversità il punto di forza. Da questo modello abbiamo cercato poi di estrapolare un modo per poter creare una nuova comunità economica». In questo contesto, contadino, mugnaio e fornaio remano nella stessa direzione per curarsi della stessa materia prima, coltivandola e trasformandola in farina, pizza e pane. E «il prezzo si trasforma in valore affinché chiunque nella filiera possa essere remunerato in maniera giusta per produrre qualità e mantenere la famiglia», dice Li Rosi.

È una nuova progettazione delle filiere, che passa dalla capacità dei produttori di uscire dall’isolamento per essere più forti ma anche dall’evoluzione dei modelli di sviluppo. Come sta provando a fare Anthony Lops con la sua azienda Passo Ladro. «Nel 2020, durante il Covid, decidiamo di tornare in Sicilia», racconta. «Nel momento in cui tutto taceva, ci siamo messi ad ascoltare la natura e i nostri vicini di casa. Da lì abbiamo capito che c’erano diversi problemi. Abbiamo deciso così di bonificare un terreno coltivato nella zona tra Noto e Palazzolo Acreide, dove oggi produciamo ortive biologiche. E poi ci siamo posti un’altra domanda: come educare il consumatore finale rispetto alla filiera agroalimentare?».

Il metodo che Passo Ladro sta provando ad attuare passa anzitutto dalla comunicazione del prodotto. Bisogna conoscerlo, conoscere il valore e il lavoro che c’è dietro per essere disposti a pagarlo più di quanto comunemente propone la grande distribuzione. «Ci sono tante aziende agricole con produttori fantastici che non sanno arrivare al consumatore finale e non riescono a posizionarsi sul prezzo», dice Lops. «Se non comunichi il tuo valore, il tuo prezzo non è giustificato. E se non riesci a lavorare sul prezzo, non riesci a pagare in maniera giusta la filiera. Noi abbiamo lanciato il negozio online, facendo tanta comunicazione sui social. È così che siamo riusciti a vendere un pomodoro bio a 9,60 euro al chilo».

E se il prodotto viene pagato per il valore che ha, anche il lavoro viene retribuito con il prezzo giusto. In questo modo, questo lavoro può tornare a diventare attrattivo. «Altrimenti chi resta a coltivare la terra?», si è chiesto Lops.

Bonsignore sta provando ad attuare la sua «rivoluzione non violenta», facendo da consulente alle aziende agricole nella valle del Belice, sull’isola di Pantelleria e in Campania, per far sì che tutti gli anelli della filiera siano corresponsabili della produzione. «Ci interfacciamo con i contadini che stanno per abbandonare o non sanno come andare avanti, li affianchiamo con una consulenza tecnica ed economica, affianchiamo il momento della trasformazione e della diffusione contenuti del prodotto con la commercializzazione», racconta. «Certo, è difficilissimo. Noi diciamo sempre che il primo miracolo che c’è nelle nostre lattine d’olio è aver fatto ragionare quattro siciliani assieme».

Un nuovo modello economico e culturale che, in un contesto come la Sicilia, diventa anche volano di turismo. È quello che Salvo Ognibene chiama «agriturismo», termine che «abbraccia tutto, dai campi coltivati agli uliveti fino al mare e alla montagna siciliani. Il turismo in Sicilia è sempre più legato ai prodotti della terra, al cibo e alle esperienze». Ma perché questi due settori economici, apparentemente distanti, siano interconnessi, occorre – dice Ognibene – «credibilità da parte di aziende che si mettono in gioco, creano uno storytelling sul prodotto e cercano di far capire perché il modello dominante non può funzionare. Noi giornalisti abbiamo la responsabilità di raccontare questo valore e farlo arrivare ai lettori/consumatori. Perché gli agricoltori e le persone che lavorano in campagna devono guadagnare di più. Solo così si potranno davvero recuperare le terre abbandonate, salvando questo settore».

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