Quando è cominciato questo stato di cose per cui nessuno è più capace di fare nessun lavoro? Il sospetto, tenace, è che non sia mica una novità. Che sia così da sempre ma, proprio come mitizziamo i giornali del passato illudendoci fossero meno pieni di refusi, ci illudiamo che una volta il chirurgo non ci dimenticasse le garze nella pancia solo perché una volta non avevamo sul telefono qualunque notiziola che ci tenesse al corrente di qualunque garza e qualunque pancia.
Nel suo “Lo statuto delle lavoratrici” (Bompiani), Irene Soave riporta una Franca Valeri di sessanta e più anni fa, che sembra me alle prese con l’assistenza Daikin, sembra te che tagghi la linea aerea che ti ha perso il bagaglio, sembra il mio amico D. che inveisce contro quelli che ristrutturandogli casa hanno sbagliato a tagliare non so che marmo preziosissimo, sembra Giorgia Meloni che sbotta in parlamento per il mezzaseghismo dei suoi vice.
«Arrivo al reparto biancheria intima e trovo una montagna di mutandine… e due commesse. Credete che mi abbiano chiesto cosa volevo? Le signorine parlavano di viaggi… io ho detto faccio con calma perché in fondo chi mi corre dietro. Guardo le mutandine e aspettiamo. Passa un minuto. Due minuti, belli pieni. Due e mezzo. Due minuti e tre quarti, tre minuti e io sbotto: Signorine! Quando saranno tornate dalla Thailandia, avrebbero la cortesia, se non disturbo naturalmente, di occuparsi minimamente anche della clientela che contribuisce, in maniera naturalmente parziale, alla realizzazione dei loro meravigliosi viaggi? Hanno alzato al cielo uno sguardo sincrono di una stanchezza, perché – vero? – lavorano solo loro, e di un’insolenza…».
Oggi, se formuli una lamentela del genere sui social – il posto dove andiamo a perdere tempo lamentandoci delle commesse svogliate e dei ministri inadeguati, sentendoci rispondere «i miei nudi in bio» – arriva sicuro come le tasse qualcuno che ti dice che le commesse guadagnano poco e tu sei un’orrida classista (e ho tagliato la parte in cui Franca Valeri infierisce sulla dizione delle commesse d’allora, la stessa dei podcaster di oggi).
Flashback. È l’estate del 2006, e sono in Liguria per qualche giorno. Un pomeriggio sotto l’ombrellone ci intratteniamo tutti a osservare le telefonate vane d’una giornalista allo sportello oggetti smarriti, o a quel che ne rimaneva, di Trenitalia. Il figlio adolescente ha lasciato il cellulare in treno. Figuriamoci. Finché la signora si arrende, e chiama l’ufficio stampa. Mi pare di ricordare che a quel punto ritrovino il telefono del virgulto, di sicuro ricordo d’averle chiesto: ma chi non può chiamare l’ufficio stampa come fa?; e che lei m’avesse risposto: fa una vita di merda. Quando quella sera Zinedine Zidane dà una testata a Marco Materazzi, io penso che sia una metafora dei consumatori esasperati che si rivalgono su servizi clienti inefficienti.
L’estate di diciott’anni dopo, in città, il condizionatore gocciola. E io decido di non fare la scelta da privilegiata depressa, chiamare l’ufficio stampa, né quella da privilegiata contenta, chiamare l’amministratore e chiedergli di occuparsene lui, che sant’uomo mi cava sempre da questi impicci, con la sua rete di ciappinari (insostituibile termine bolognese) che aggiustano tutto.
Io ho un sussulto di «me la caverò da sola» (un istinto che bisogna sempre sedare: porta solo guai) e cerco su Google il numero verde di Daikin, e li chiamo, e già qui ci sarebbe un pezzo da fare sul fatto che nessuno sa più lavorare ma tutti hanno rigorose “procedure aziendali”, ma questo lo scrivo un altro giorno (un giorno in cui dire molte volte “kafkiano”). Oggi invece passiamo direttamente alla chiamata che ricevo il giorno dopo, quella dell’assistenza locale.
Assistenza che non mi può mandare nessuno in nessuno dei giorni in cui sono in città, quindi finiamo a due settimane dopo – nel senso: mi arrendo a cambiare i miei programmi per esserci quando, due settimane dopo, va bene a loro – e due settimane dopo ovviamente il condizionatore ha smesso da solo di gocciolare. La fascia di comodo dell’assistenza era tra le 13 e 30 e le 15 e 30, e alle otto di mattina chiamo per avvisare: non gocciola più, mi pare raffreddi poco, forse è il caso che manteniamo l’appuntamento?
Certo, mi dice il tizio al telefono, se gocciola o raffredda poco è sicuramente perché è sporco, vanno pulite le canaline (o qualcosa del genere, ora non penserete che abbia memorizzato il gergo dei condizionatori, già faccio fatica coi dativi tedeschi), verrà il mio collega, perfetto, grazie, arrivederci.
E il suo collega (parola che è sempre sempre sempre indizio di sciatteria, fuori dalle canzoni di Paolo Conte) arriva in effetti nel primo pomeriggio, e mi dà del tu in risposta a ogni frase che gli rivolgo dandogli del lei, e si fa portare la scala che è dall’altra parte della stanza ma mica può affaticarsi a prenderla lui, e sale, e apre il condizionatore, e dice col tono di quello che fa una constatazione che non lo riguarda: è sporco, ti consiglio di prenotare una pulizia.
Con l’esasperata pazienza di Giorgia Meloni in diretta televisiva tra gente che non capisce quand’è il caso di alzarsi, di applaudire, di simulare contrizione, dico: ma scusi, non la fa lei? Noooo, risponde lui con lo zelo delle commesse che avrebbero dovuto vendere le mutande a Franca Valeri: è una cosa lunga, non mi sono portato i materiali.
Mi ricordo del «sii servile» della Aspesi, quindi non abbaio «eh, certo, non sia mai diventi un lavoro», ma simulo mitezza dicendo che speravo proprio se ne occupasse lui. Il quale si fa quindi portare dello Scottex e uno spray per i vetri e dà, giuro, una passata alle parti sporgenti come avrei potuto fare io se in un pomeriggio di noia mi fosse venuta voglia di giocare a Barbie Magie di Massaia.
Nei due minuti in cui dà questa preziosa e risolutiva passata di Scottex sulle parti esterne del macchinario, egli sciorina tutte le sindromi. Quella dei guasti del governo precedente: la parte esterna del condizionatore ha sopra un rampicante ed è stata installata troppo distante dal piano terra, se ci fosse bisogno d’intervenire sarebbe un guaio. Quella patriarcale: gli dico di rimettere l’aria a 18, come l’ha trovata, e mi dice che mi fa male, devo tenerla a 24 (in effetti una quando chiama la Daikin non è che voglia che le puliscano il condizionatore, ma che le insegnino a vivere).
Quella usuraia: pago centosette euro, ch’egli mi fattura con esasperante lentezza (deve pur perdere il tempo che non ha impiegato pulendo il mio condizionatore). Il giorno dopo, chiamo di nuovo il numero verde: buongiorno, vorrei sapere perché vi ho dato centosette euro perché mi mandaste uno che non s’era portato l’attrezzatura per fare quel che sapeva da otto ore di dover fare.
La signorina – che mi piace immaginare con lo sguardo sveglio di Matteo Salvini in quei fotogrammi con le braccia incrociate, incapace di capire che è il caso di alzarsi e applaudire – mi dice che non ha idea, e che passerà la pratica all’apposito ufficio reclami. Dal quale cinque giorni dopo mi arriva una mail su cui la Valeri avrebbe scritto almeno un atto unico.
«Gentile Sig.ra Soncini, con riferimento alla Sua segnalazione pervenuta presso i nostri uffici, il Centro Servizi Autorizzato eseguiva la pulizia dei filtri, con esito positivo. L’occasione ci è gradita per porgerLe cordiali saluti». Lo so, è molto bello che tu segnali che non hanno fatto un cazzo e loro rispondano «abbiamo fatto tutto e bene», che tanto varrebbe «gentile signora, lei è completamente pazza e ci sta calunniando».
Ma a me piace di più l’incapacità di trovare una civile via di mezzo tra il quarantenne che ti dà del tu come un tredicenne e quello che ti manda la mail con le maiuscole tipo circolare ministeriale. Sono stata tentata di rispondere dicendo «veramente i filtri li ha dati a me e m’ha detto di passarli sotto l’acqua, quindi tecnicamente li ho puliti io»; sono stata tentata di rispondere chiedendo se davvero, come mi aveva detto l’immancabile amico zelante, col condizionatore non pulito si prenda la legionella (dopo una certa età, qualunque bega diventa: oddio quindi muoio?); soprattutto, sono stata tentata di rispondere «arzatevi pure voi», pensando a quanto è tutte noi Giorgia, circondata da mezzeseghe il cui mezzaseghismo è battuto solo dalla non voglia di lavorare.
Poi ho deciso di usare quei due minuti per cercare su Google “gli stipendi saranno pure troppo bassi, ma non è che siete comunque dei miracolati, considerato quanto siete al contempo privi d’ogni minimo talento e della più microscopica voglia di lavorare?”. Che secondo me è quel che pensava la Meloni in quei dieci secondi in cui i suoi vice reagivano con la svegliezza delle mucche che guardano i treni, dei tecnici che guardano i condizionatori, di Alice che guarda i gatti.