Comfort food lessicaleLa paura dei fascisti al governo, quando il pericolo è che sono mezze seghe

Capisco il bisogno di dichiararsi appartenenti a una curva, ma chi ce lo doveva dire: moriremo nostalgici della Dc

Lapresse

Quante volte al giorno usate la parola «fascisti»? Più o meno dell’anno scorso a quest’ora? Più o meno di quando trent’anni fa ritenevamo gravissimo che Berlusconi avesse portato i fascisti al governo?

Ma non è solo «fascisti», il comfort food lessicale per menti semplici che è meglio d’un brodino con dentro il formaggino in queste giornate che sembrano di novembre. Non è solo «fascisti», che oltretutto ha anche una sua utilità.

Lo usavamo, prima di venire soffocati dal terrore dell’ultima occasione di sentirci in trincea, come modo sbrigativo di dire «quelli di là». Poi, certo, quelli di là hanno complicato le cose. Se hai una classe dirigente coi busti di Mussolini in casa, poi per forza ti dicono eh-ma-lo-vedi-che-allora-sei-fascista (invece di dirti: eh ma lo vedi che hai molto bisogno d’un arredatore con un po’ di gusto).

D’altra parte, l’ha spiegato bene Michele Serra domenica sera nel programma di Fabio Fazio, tra le molte cose che una volta c’erano e ora no – le interurbane, le latterie, il cinema di seconda visione – tra le molte cose che non credevamo ci sarebbero mancate, c’è la Dc. Cioè: una classe dirigente fatta di adulti con uso di mondo.

Ho passato il lunedì sera a parlare di classe dirigente con un interlocutore che diceva che, in Rai, avrebbero potuto metterci Tizio. Tizio, del quale non faccio il nome perché non è lui il punto, è un signore – ovviamente democristiano – di cui sia io sia il mio interlocutore abbiamo grande stima. E sì, certo, Tizio sarebbe stato un ottimo amministratore delegato della Rai. Ma è uno.

Per un’intera conversazione, non siamo riusciti a tirar fuori un altro nome. C’è un problema di classe dirigente di destra? C’è un problema di classe dirigente tout court, mi pare. «Ci mette gli amici suoi invece che quelli bravi», dicono della Meloni così come dicevano di Renzi. E se quelli bravi non ci fossero? Non è un’iperbole, non quanto sembra. È difficile pensare possa esistere un secolo in cui sono tutti mezze seghe, però se ti metti lì in un convivio di gente alfabetizzata e dici tu chi faresti capo della Rai, chi del festival di Venezia, chi ministro della cultura, vengono fuori al massimo due nomi.

(Dichiaro fin d’ora che oggi risponderò «ma naturalmente, eri uno dei due nomi, non scherziamo» a tutti e duecento gli intellettuali di sinistra che mi diranno piccati «ma perché, tu non pensi che io saprei fare il capo della Rai, di Venezia, delle cucine di Heinz Beck, della Scala, degli Uffizi?»).

D’altra parte la storia che ha raccontato Serra domenica, sul Sanremo di quando il direttore di Rai 1 era Fuscagni, l’ha raccontata nel programma di Fabio Fazio, che va sul Nove. Va sul Nove perché Fazio è un temibile antifascista e quelli sono una banda di fascisti? Probabilmente va sul Nove perché gli hanno dato più soldi o più garanzie, ma resta che se gestisci la Rai e lasci andar via Fazio senza capire che poi il suo andare altrove farà sì che tutti ti diano della mezza sega fascista, non so se tu sia in effetti fascista, ma di sicuro sei mezza sega. Che non capisco come possa esser considerato meno grave di fascista, a fascismo finito da quasi ottant’anni, e mezzasegaggine in pieno presente storico.

È l’inizio di dicembre. L’Italia acclama come eroe della resistenza partigiana un tizio che in un loggione della Scala ha detto «viva l’Italia antifascista». Lo acclamano perché è stato eroico? Lo acclamano perché la gestione della sicurezza mezzaseghista manda la Digos a identificarlo, e noi non siamo certo quel beato popolo che non ha bisogno di eroi.

È la metà di gennaio. Alcuni microfoni assediano il ministro Sangiuliano chiedendogli di dichiararsi antifascista. Agli italiani piace moltissimo il format «tizio messo in imbarazzo da domandatori maleducati», quindi siamo pronti a dire che, ah!, non si è prontamente dichiarato antifascista. Nessuno si chiede perché uno debba dirsi contrario a una dittatura d’un secolo prima. Io sogno che qualcuno mi chieda se sono contro l’impero romano, che diversamente dal fascismo aveva pure gli schiavi.

È ancora la metà di gennaio, e nel suo primo tentativo di farsi notare al mercato dell’eroismo partigiano Serena Bortone dice alla sua ospite Annamaria Bernardini che lei – lei Bortone, no lei Bernardini che sta sbuffando per l’utilizzo della categoria – è fieramente antifascista. I social ne fanno un’eroina contemporanea – sempre di Bortone, no di Bernardini – e arriviamo a ieri.

Ieri Francesco Piccolo scrive su Repubblica un delizioso pezzettino di cui mi pare di poter immaginare la gestazione. «Francesco, ce lo fai un pezzo su Scurati?» «Solo se posso non nominare mai Scurati».

Dice Piccolo che lui non potrebbe dire d’essere basso, o di Milano: non lo è. Mentre potrebbe dire d’essere antifascista, perché lo è. E che tutti questi che faticano a dichiararsi antifascisti, quindi, non lo sono. Può essere, eh. Però io non ho capito una cosa. Posto che siamo tutti d’accordo – spero – che i costumi da carnevale da balilla, i busti del duce, il saluto romano e tutto quel folklore lì non vogliono dire che ci sia, al presente, il fascismo.

Tutto il casino armato su Scurati riguardava il racconto della morte di Matteotti, e quindi la differenza tra allora e ora dovrebbe esserci chiara: spero che nessuno di noialtri mitomani si ritenga prossimo a essere ucciso dal regime (sì, lo so che Scurati poi ha detto che la Meloni gli ha disegnato un bersaglio in faccia, ma insomma facciamo che era un’iperbole, facciamo che era una di quelle cose che dici sul palcoscenico, facciamo che poi uno dal palcoscenico scende e ripristina il senso del ridicolo).

Ecco, do per scontate queste premesse, e do per scontato anche l’antifascismo come categoria di mercato. Valentina Mira, in dozzina allo Strega con “Dalla stessa parte mi troverai” (il libro con la più brutta copertina nella storia dell’editoria italiana, e dire che era un campionato competitivo), aveva venduto fino a un paio di settimane fa qualche copia a parenti e amici.

Poi l’allarme democratico. Il suo romanzo su Acca Larenzia viene aspramente criticato dai giornali di destra, lei minacciata sui social dai soliti impotenti con pacchetto dati che devono pur passare il tempo, in sua difesa accorrono un po’ tutti, da Lilli Gruber a Dacia Maraini che giura, sul Corriere, l’Italia sia fondata su «un cinema, una letteratura, una politica antifascista». Presto, esaurito ovunque, ristampiamo tredicimila copie.

Ora, tutto è bene quel che finisce in classifica, ma al netto delle fortune editoriali della Mira e di Scurati, al netto del bisogno di noi tutti di dichiararci appartenenti a una curva, al netto del sospetto che occuparsi di fascismo sia una distrazione per non occuparsi di mezzaseghismo: mi dite perché dovrebbe fare punteggio dirsi antifascisti nel 2024? Perché siamo così mitomani da raccontarci che sia una presa di posizione eroica quanto poteva esserlo nel 1938?

Non può essere solo perché è tutto sommato vero che siamo contrari a quelle dittature dalle quali non rischiamo più di venire trucidati per il nostro dissenso, mentre mentiremmo se dicessimo che siamo di Parigi, o vegani, o che non siamo delle mezze seghe – non sarà quello, no? Non può essere che, non potendo più promettere che non moriremo democristiani, l’antifascismo mezzaseghista ci sembri un ripiego sufficiente, no? Ma soprattutto, chi l’avrebbe detto, in quel secolo lontano, che saremmo in effetti morti non democristiani ma di nostalgia per la Dc?

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