Maldifiga ExpressLa fraintesa arte del pettegolezzo e l’ingenua permalosità delle influencer

Le chat di oggi servono a parlar male degli assenti, come gli epistolari di tre secoli fa o i cortili della scuola. I social, invece, servono a discettare di geopolitica e filosofia, sentendosi rispondere: i miei nudi in bio

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Di quale cascame dei secoli precedenti vogliamo parlare, di quale relitto di illusioni perdute, di quale fantasma che è riuscito a convincerci d’essere vivente converrà occuparsi, oggi, al lordo d’uno scandale du jour persino più assurdo del solito? Della reputazione, o del femminismo?

Per qualche tempo ho avuto sul mio telefono una chat nominata (da me che l’avevo creata) “Maldifiga Express”. Eravamo tutte, noi pochissime partecipanti, abbastanza sicure che gli screenshot di quella chat non sarebbero andati in giro. Tuttavia, se dovevamo dirci qualcosa di privato, ci telefonavamo: non si mettono per iscritto cose da cui potresti dover prendere le distanze – lo sanno anche i bambini, o almeno dovrebbero.

Lì c’era solo, fotografabile e inoltrabile e non smentibile, ciò che si fa da sempre nelle conversazioni della società umana: parlar male degli assenti. A questo servivano gli epistolari del visconte di Valmont e della marchesa di Merteuil tre secoli fa, a questo servono oggi le chat; e, se qualcuno un giorno fosse così infantile da dirmi «tu hai parlato male di me», non credo avrei altra risposta che «embè?».

Si chiama pettegolezzo, è una modalità che i più mitomani sovrappongono alla letteratura, è una forma di comunicazione che se sei adulta e la sai utilizzare non dà problemi, ma che può avere forme assai imbarazzanti, e questa settimana le ha avute tutte.

Lo scandale du jour del momento non fa fare una bella figura alle donne, ferme a spettegolare all’intervallo delle lezioni in quarta ginnasio, mentre quegli altri che spettegolano fumando il sigaro fanno girare il mondo. È tutta roba di lei ha detto, e allora tu hai detto, epperò tu mi parlavi dietro, e mi ha detto Maria Abelarda che vai in giro a dire che ho il culone. Poi dice le donne non prendono il potere. Ma chissà come mai.

Questo sarà un articolo senza nomi, perché nessuna delle parti in causa è rilevante chi sia, e soprattutto perché le parti in causa sono perfettamente intercambiabili: come spesso accade nelle dinamiche ginnasiali, si detesta ciò cui si somiglia.

Abbiamo, dunque, un gruppo di femmine A e un gruppo di femmine B. Il gruppo di femmine A fa il femminismo su Instagram: accende la telecamera del telefono e inveisce contro il patriarcato, di conseguenza si fa notare dall’editoria così come dai produttori di ombretti, di conseguenza fattura a entrambi.

Il gruppo di femmine B fa la critica culturale su Instagram: accende la telecamera del telefono e inveisce contro le femmine A, accusandole d’incoerenza e d’altre gravi nefandezze, tra cui il fatturato; le femmine B non è che stiano sull’Instagram per diletto (mi chiedo se ci sia ancora qualcuno che ci sta per diletto: forse il mio parrucchiere), però fatturano un po’ meno col posizionamento professionale colà conseguito.

I due gruppi hanno molto in comune, anche un’assenza di senso del ridicolo che genera un’applicazione a casaccio del senso del tragico. Le une postano vibranti di sdegno il loro bravo «All eyes on Rafah»; le altre inveiscono contro un meme sulla guerra con un piglio che sarebbe più sensato riservare alla guerra che ai meme.

Nessuno dei due gruppi di femmine, temo, ha capito che l’internet è un posto al quale Elon Musk ha donato l’incarnazione perfetta. Da quando il suo X, già Twitter, si è riempito di mignotte che lasciano tutte lo stesso commento, l’impossibilità di predicare, informare, istruire, fare alcunché di contenutistico su un social è sancita sotto ogni tweet (o come si chiamano ora).

Tu spieghi come ottenere la pace nel mondo, risolvere il problema dei senzatetto, abbattere il patriarcato, e il primo commento sarà sempre e comunque: i miei nudi in bio. Se la tv si facesse ancora con le idee, qualcuno userebbe la frase per interrompere gli opinionisti più noiosi, ogni «io l’ho lasciata finire non mi interrompa» verrebbe zittito da una voce fuori campo: i miei nudi in bio. Poi ci torniamo, ma ora devo illustrarvi lo scandale.

La ricostruzione sarà a spanne: come in tutti i Rashomon, non si sa bene come sia andata, tutte le versioni sono piene di buchi di sceneggiatura e tutto sommato i dettagli non sono neppure così interessanti.

Lo scandaletto comincia quando viene fuori che una B avrebbe creato e alimentato un gruppo su Telegram nel quale, ohibò, si parlava male delle A. E qui dobbiamo affrontare la questione della reputazione, questo mostro di Lochness nel quale le abitanti di Instagram credono fermamente.

Non importa quante volte al mese qualcuno sembri rovinato per sempre da un inciampo per poi, tre quarti d’ora dopo, ricominciare la sua vita e la sua carriera come niente fosse.

Non importa che, in questo secolo, solo Chiara Ferragni stia effettivamente subendo conseguenze concrete d’un danno reputazionale, e se qualche sociologo serio volesse spiegarmi il perché io gliene sarei grata: mi pare che abbiamo perdonato più in fretta quarantatré morti ai responsabili del ponte Morandi che il milione di euro regolarmente fatturato e tassato a una che faceva un normale lavoro da testimonial. Sì, va bene, «ha truffato sui bambini oncologiciiii» è un efficacissimo slogan propagandistico, ma c’è qualcosa che non torna, considerato che la reputazione non esiste.

La reputazione, in un secolo in cui c’è gente che di mestiere te la recupera, non esiste. Forse possiamo dirlo, i consulenti reputazionali sono meno degli psicologi, per svelare che la psiche è un’invenzione filosofica non più concreta delle monadi è ormai tardi e si creerebbe una voragine di posti di lavoro, ma forse l’inesistenza della reputazione ancora possiamo dirla a voce alta.

Quando è partito questo scandaletto, sono partiti i rinfacci da quelle del gruppo A a quelle del gruppo B, e viceversa. Ora io, come tutte le sfaccendate che hanno in antipatia entrambi i gruppi, passo il tempo a guardarne i social (i social servono solo a quello, oltre che ai nudi in bio: a guardare gente che detesti; una volta dovevi andarci a cena e parlarne male appena si allontanavano dalla tavolata, ora ti basta spolliciare il telefono).

Eppure nemmeno io, che conosco gli account di queste derelitte più a menadito della “Recherche”, mi ricordavo di nessuna delle vicende che loro rievocavano sempre con sobrie ricostruzioni quali «quella volta che Tizia mi ha rovinato la vita». Come tutti, probabilmente sono beghe che ho letto nel momento in cui succedevano, e ho dimenticato dopo un minuto.

Siamo bombardati da informazioni che si cannibalizzano l’un l’altra, io non riesco più a memorizzare i romanzi che mi piacciono, secondo voi tra un mese ricorderò che con le ultime piogge primaverili ci fu lo scandalo di A che litigava con B e allora quella ha detto e allora quell’altra ha risposto? I nostri sputtanamenti interessano solo a noi, gli altri hanno tempo e sinapsi ed energie solo per i loro.

La leggenda della reputazione s’incastra con un dettaglio di particolare demenza di questo secolo. Una volta, nel remoto passato in cui a un certo punto si diventava adulti, superavamo con la maggiore età il terrore che gli altri parlassero male di noi. Diventare grandi significava che, invece di restare a morire di sonno a una cena perché se te ne vai per prima poi chi resta farà commenti perfidi sul tuo culone, andavi a dormire certa che chi ti aveva sorriso fino a un attimo prima avrebbe detto di te cose turpi. Diventare grandi significava sapere che quel che dicono di te riguarda loro, mica te.

Adesso è pieno di gente dell’età dei datteri che s’illude di poter aver il controllo di ciò che si dice di lei in un’epoca che non è quella delle lettere di Choderlos de Laclos, ma delle chat, degli screenshot, degli inoltri, del tantissimo tempo liberatoci dagli elettrodomestici. Se avessi dovuto lavare i panni al fiume forse non mi sarei messa a fotografare pagine del tuo libro per dire alle amiche quanto sei analfabeta, ma ora invece.

Quando il gruppo A inizia a lamentarsi, sembra che le B abbiano diffuso chissà che riservati materiali pornografici, e poi viene fuori che l’illusione del controllo riguarda persino situazioni che private non sono. Su Instagram c’è la possibilità di postare storie, caratterizzate da una stellina verde, solo per gli amici cari. È comodo se vuoi usarlo come si usavano i social all’inizio, solo per mostrare qualcosa alla gente che conosci.

Solo che queste signorine d’oggi hanno il cervello devastato da Zuckerberg, e pensano che un amico sia un contatto di Facebook, mica uno che puoi chiamare alle tre di notte se buchi una gomma. Sono quel genere di persone che dice, senza rendersi conto di cosa significhi, quella terrificante frase che è: ho tanti amici.

Quindi le signorine A aggiungono alla lista degli amici cari di Instagram decine, centinaia, migliaia di sconosciuti, e poi trasecolano quando le loro storie a numero chiuso vengono riferite, inoltrate, diffuse un po’ a chiunque. Dall’altra parte abbiamo le signorine B, il cui scandalo scoppia perché queste prese per il culo non le facevano con gente alla quale telefonare se buchi la gomma: le facevano in chat con settanta sconosciuti con la cui compagnia mitigare la loro silenziosa disperazione. Ve l’avevo detto che erano uguali.

Sono speculari anche nel minacciare che ci vedremo «nelle sedi opportune», tutte convinte che il mondo debba loro attenzione, il mondo e quindi anche i tribunali. Ai tempi di Maldifiga Express, un’amica che sapeva dell’esistenza della chat mi disse che era un po’ offesa di non essere stata aggiunta, ma anche molto sollevata: quando finirete per sputtanarvi, disse, io potrò dire che non c’ero. Era un’affermazione di grande maturità: se sai che arriva una retata, te ne vai per prima dalla cena anche se diranno che hai il culone.

L’altro giorno ho guardato i commenti a un tweet che già non ricordo più se fosse una difesa delle A o delle B. Era il giorno in cui Musk aveva liberalizzato le immagini porno su X (mi pareva fossero già piuttosto libere, per la verità: ci sono più foto di bigoli su quel social che in certi telefoni). Oltre ai soliti «i miei nudi in bio», nelle risposte c’era una che aveva messo una foto in primo piano della sua patonza.

Mi è sembrato illuminante: eccola qui, la perfetta sintesi di con chi parlate voialtri che pensate di poter far funzionare l’intelletto sui social, di perorare cause, di abolire le guerre o le carceri o la fame nel mondo o il cacao sul cappuccino. Un primo piano della figa, alé. L’ho scritto nelle risposte, perché se non me lo annotavo poi non mi ricordavo di parlarne in questo articolo.

È arrivata una zelante rappresentante di questo tempo sbandato a dirmi che sono paternalista, che mi permetto di ridicolizzare qualcuna solo perché se la fotografa e posta la foto nei commenti d’un social (in effetti un gesto per nulla ridicolo). Quel che è peggio, diceva, era che volevo delegittimare al dibattito la primopianista della topa. La quale era, nella percezione quindicenne della commentatrice, interessatissima al dibattito.

Ora io non so se sia più finito il femminismo, in mano a gente che sostiene senza mettersi a ridere che fotografarsi le innominabilità sia un contributo al dibattito, o la reputazione, ormai oggetto quasi più di fantasia della psiche. So però con certezza quali siano le sedi opportune per tutto ciò: i cortili delle scuole.

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