Dopo le EuropeeLe elezioni ci diranno se europeismo e progressismo possono stare ancora insieme

Renzi, Bonino e Calenda potrebbero valere anche il dieci per cento. Dovrebbero però decidere che cosa vogliono fare da grandi e come valorizzare il capitale elettorale

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Cosa faranno quegli elettori italiani che si richiamano a un’idea concreta e forte di riformismo, che, per farla breve, si riconoscono nell’idea di un moderno progressismo di governo? Ci si trova dinanzi a questo passaggio delle elezioni Europee da cui non dovrebbero scaturire sconvolgimenti epocali e che però sono molto importanti per capire se Europa e riformismo siano due parole che possono stare insieme. Parlando subito dell’Italia, da questo punto di vista c’è da rimanere un po’ sconcertati.

Com’è noto ci sono due liste – Stati Uniti d’Europa e Azione – che si richiamano a Renew Europe, la formazione europea guidata da Emmanuel Macron. Entrambe hanno fatto una buona campagna elettorale, dando più di tutti gli altri centralità all’Europa e ai suoi problemi così che ne sono emersi una competenza e uno spirito europeisti notevoli. Giovedì sera abbiamo ascoltato da Enrico Mentana prima Matteo Renzi e poi Carlo Calenda. Hanno detto le stesse cose. Maggiore integrazione, difesa comune, ricerca, innovazione, riforme. Non è vero che sono cose che dicono tutti, anzi, il loro è un potente antidoto al sovranismo della destra italiana ed europea. Poi ci si è messa la solita questione personale (soprattutto da parte di Calenda): le conferenze di Renzi in Arabia Saudita, i vecchi dissapori, questioni di cui interessa davvero poco e che se si volesse si potrebbero superare. Riportando un clima migliore anche tra i rispettivi elettorati.

Vedremo i risultati domenica sera ma è infinitamente più rilevante il fatto che Renzi e Calenda, con il generoso contributo di PiùEuropa e di altre forze, insieme potrebbero tendere al dieci per cento. Il quarto partito. Non lontano dai Cinquestelle.

Comunque vada il voto, da lunedì nell’ex Terzo Polo dovranno cominciare a chiedersi cosa fare da grandi e come dare casa a un decimo dei votanti. È persino una questione democratica: non è lecito sequestrare gli elettori cristallizzando e perpetuando rivalità e ambizioni personali. Chissà, per sbloccare lo stallo a un certo punto una personalità di spessore e di indiscutibile autorevolezza potrebbe prendere i leader per le orecchie e costruire qualcosa di nuovo. Forse una personalità come quella di Francesco Rutelli. Il quale fa sapere di non aver voglia di tornare in campo ma si potrebbe indurlo ad accettare il compito di mettere insieme i cocci del riformismo italiano: un compito storico che il non dimenticato ex sindaco di Roma, insieme ad altri, assolverebbe nel migliore dei modi. Dando vita ad un cantiere riformista nel segno di Joe Biden, Emmanuel Macron, Keir Starmer, e soprattutto accogliendo forze nuove.

Da questo punto di vista ci sono energie e personalità che, appunto, cercano una casa riformista tanto più dopo lo spostamento a sinistra del Partito democratico di Elly Schlein che contiene elementi di irreversibilità anche perché la sua leadership non è in discussione. Ma se il Partito democratico irrigidisse questa postura movimentista tutto diventerebbe possibile, pure la rottura di quel patto Schlein-Bonaccini che è servito per fare le liste rispettando il «cencellismo» del Nazareno, anche se molti candidati riformisti sono stati ostacolati dai gruppi dirigenti schleiniani: vedremo come andranno le preferenze dei vari Giorgio Gori, Irene Tinagli, Pina Picierno, Pier Maran, Lele Fiano, Alessia Morani e gli altri. Nel Partito democratico molti mordono il freno. Il rischio di un partito «monocolore» esisterà. Per questo gli ex bonacciniani dovranno ripensare la loro funzione e rivedere la propria linea. Dunque, si può fare qualunque cosa, tranne non fare niente. Vale per tutti i riformisti.

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