Sfilate organizzate nell’estrema periferia della città, in casermoni abbandonati con vista privilegiata sulla Ricicleria Corelli e autolavaggi al confine con l’hinterland, oppure in maestosi circoli Arci che trasudano dalle pareti in pietra il passato di una Milano che la globalizzazione e le archi-star all’interno delle mura si affannano a cancellare: benché raggiungere le location scelte da Magliano per presentare le sue collezioni sia tutt’altro che agevole, una nutrita folla di giornalisti della stampa nazionale e internazionale, insieme a un nugolo folto di “cool kids” – saranno poi famosi? Di certo si vestono come se lo fossero – si presenta ogni volta all’appuntamento.
Un attestato di stima a un designer, Luca Magliano, wunderkind della moda maschile, che preferisce volutamente rimanere ai margini (è raro che si conceda l’uscita finale dopo la conclusione del défilé, nel quale sguazzano invece molti suoi colleghi forse più bisognosi di applausi e onori), alimentando mistero e fascino. «Non esco spesso, è vero, ma lo faccio perché al risultato finale concorre tutta la mia squadra, e prendermi quegli applausi da solo non mi sembra corretto», ammette Magliano, un volto che ricorda i ragazzi di vita di pasoliniana memoria, in collegamento Zoom da Faenza, all’interno di un grande edificio a mattoncini rossi, una fabbrica dai soffitti alti, dove viene prodotta la sua collezione.
Un senso di appartenenza a una piccola comunità creativa, di cui è il fondatore, che suona romantico, e lo porta a prediligere il noi alla prima persona singolare. «Le sfilate? Non lo facciamo apposta a organizzarle lontano dal centro, ma ci piacciono i posti carichi di storia, memoria, e Milano negli ultimi anni è diventata una città nella quale è difficile ritrovarla, dove la classe operaia è spinta sempre più fuori, verso le estreme periferie. Alla fermata del tram è difficile incontrare, chessò, qualcuno che va a lavorare in fabbrica: una cosa che non succede a Bologna, la città nella quale sono nato e dove ho fatto la scelta di continuare a vivere».
Frasi che fanno subito comprendere quale sia l’ossessione di Magliano, classe 1987: la provincia, in senso più culturale che geografico, un concetto che non sembra interessare più nessuno, nella moda italiana, tutta compatta e desiderosa nel farsi categorizzare come “internazionale”, cancellando una parte importante della propria storia, anche, banalmente a livello numerico (secondo i dati Eurostat del 2020 il 41,2 per cento degli italiani vive in città e sobborghi, a fronte di solo il 31 per cento che vive in grandi città e del 24,5 per cento che risiede in aperta campagna).
Il padre erede di una generazione di eclettici inventori e musicisti autodidatti, nativo di Eboli, «non certo il sud magico della Campania in spiaggia, l’entroterra è tosto», la mamma della Marzabotto dell’eccidio nazi-fascista del 1944 «lo specifico perché venire da lì, nella nostra storia, vuol dire avere un retaggio pesante, denso», Magliano non ha timore nel definirsi «orgogliosamente di paese», identità geografica sulla quale ogni ufficio pr che si rispetti preferirebbe glissare.
«La provincia è un retaggio genetico italiano difficile da spiegare all’estero, ma sarebbe disonesto fingere che non esista: il nostro paese non ha metropoli, Roma è l’emblema di come sia impossibile pensare di costruire una città in Italia che non sia divorata da un modo di vivere provinciale». E divorare non è un termine scelto a caso, visto che l’approccio alla creazione di Magliano – per gli amici Luchino, con un naso da Primo Carnera e la sigaretta sempre accesa – è famelico, e ha trovato da subito linfa e orientamento (anche) politico con l’educazione bolognese, che tra università e centri sociali, lo ha spinto a rendere protagonista di ogni sua collezione una comédie humaine di personaggi dimenticati dalla globalizzazione, lasciati ai margini, animali notturni non nel senso laccato e cinematografico di Tom Ford, quanto anime disperse negli autogrill delle autostrade sull’Adriatica, di quelle raccontate da Pier Vittorio Tondelli, sinonimo della controcultura underground della Bologna degli anni Ottanta.
«Le micro-storie di Weekend post-moderno sono una delle più grandi testimonianze di questo territorio, frammenti preziosi di un’indagine che nessuno ha portato avanti con tanta precisione». Ma è a un altro visionario geolocalizzato nello stesso spazio-tempo (la Bologna degli anni Ottanta) che Magliano ha dedicato la sua collezione autunno-inverno 2023: Luigi Ontani, artista autore di tableaux vivants dei quali è indiscusso protagonista, travestito di volta in volta da Pinocchio, Dante, Bacco e San Sebastiano. Un eclettismo che Ontani non limitava alla performance, ma sfoggiava anche nella vita reale, passeggiando per il suo piccolo paese d’origine, Vergato (in provincia di Bologna), in completi rosa shocking e pigiami broccati.
Una sensualità che Magliano ha tradotto con sovrapposizioni tra tessuti antagonisti, la modestia del panno di lana, usato dagli operai, e broccati, lurex e cristalli ricamati su completi morbidi in seta: ensemble che i modelli indossavano con attitudine rilassata, muovendosi tra le varie stanze dell’Arci Bellezza di Milano – in cui un altro Luchino, Visconti, aveva collocato la palestra di boxe dove si allenavano Rocco e i suoi fratelli nell’omonimo film. Il ring però, è qui sostituito dal letto dove si consumano altre, altrettanto feroci, lotte. «Sono stato convinto sin dall’inizio che Magliano dovesse trasudare sensualità, una sorta di sfacciataggine queer anche laddove il lavoro che facciamo sul blazer è classico. Le atmosfere che voglio evocare, te lo dico fuori dai denti, sono quelle del cruising gay, à la Tom of Finland ma ambientate in una nebbiosa pianura emiliana. Un allure di mistero, forse anche di pericolo, che piace anche alle donne, visto che il brand è comprato molto da loro in Paesi come la Cina e la Corea e in Medio Oriente».
La lezione della provocazione sottaciuta o espressa a seconda dei casi, Magliano l’ha imparata (e apprezzata) studiando un altro designer con il quale il fashion system italiano deve ancora venire a patti, nonostante sia scomparso da 30 anni: Franco Moschino. «Ho scoperto il suo lavoro grazie a una sua cara amica, Barbara Nerozzi, la donna che mi ha portato a scegliere di divenire designer, passando dall’età adolescenziale ai primi tentativi di immaginarmi come un adulto. L’ho incontrata quando ho frequentato la Libera università delle arti, a Bologna, la L.UN.A., di cui era fondatrice, oltre a essere giornalista, architetto, regista, ricercatrice: non ero interessato alla moda, ma tramite lei ho scoperto che disegnare una
collezione è come maneggiare dei contenuti, immaginare un linguaggio, esprimere le proprie posizioni usando l’arma dell’ironia, con lo scopo di provocare: un mestiere intellettuale, del quale mi sono innamorato. Non trovi la moda bellissima?».
Un amore che Magliano ha affinato in anni come direttore creativo di Grifoni, un’esperienza conclusa di recente per dedicarsi totalmente al suo brand che lo stesso designer definisce «un salto nel vuoto. I rischi erano tanti, ma era venuto il momento di farlo». Il rischio però, dall’esterno, appare ben calcolato, visto che già nel 2017 il brand aveva vinto il Who is on Next, premio dedicato ai talenti emergenti, venendo invitato, l’anno dopo, a sfilare al Pitti, evento che gli ha aperto le porte del mercato giapponese.
Un alfabeto stilistico, quello di Magliano, dei quali si intuiscono i lemmi più importanti: la varietà umana che popola i suoi show – diversa per provenienza, taglia, e colore – risponde ad esempio a un desiderio autentico di rappresentazione delle diversità, più che a una forzata mossa pubblicitaria volta a intascarsi un altro gagliardetto, assai ambito da tutti i designer odierni, quello dell’inclusività. «Quando procediamo ai casting, ho sempre in mente il ruolo che i ragazzi dovranno interpretare», spiega Magliano. «Ho una serie di feticci che parlano della mia esperienza e vengono scelti a seconda della collezione: c’è l’omaggio allo stile di Lucio Dalla, il riferimento al mio poeta preferito, Sandro Penna, e poi una fauna galattica, come direbbe Tondelli, fatta di fricchettoni, eredi dello spiritualismo degli anni Settanta, e poi caratteri più politici, come la “frocialista”, personaggio che esercita con forza la sua sfacciataggine, allo scopo di veder soddisfatte le sue richieste politiche. Nulla del quale stupirsi, visto che il mio primo approccio con il mondo gay è stato il Cassero».
E in effetti serpeggia per ogni sfilata di Magliano un impegno politico e sociale non esibito, ma di certo presente, elemento residuale di quelle decadi di lotte, che hanno visto proprio nel Cassero di Bologna il loro Sancta Sanctorum, in quanto primo spazio pubblico concesso in Italia a un’associazione composta da omosessuali. E molti, di quel Circolo XXVIII giugno che lo fece vivere per primo, venivano dal “Collettivo frocialista”, così ironicamente battezzato da Lola Puñales, all’anagrafe Samuel Pinto, esule del regime di Pinochet. «La tematica mi appassiona», ammette Magliano, «al Cassero ho conosciuto alcuni dei membri fondatori del movimento lgbtqia+. Anni fa avevo posizioni più inclusive, oggi penso che il contemporaneo ci richieda una maggiore severità: non basta essere omosessuale per sentirsi orgoglioso. Se si rivendicano diritti paritari, bisogna farlo per tutti quelli che non ce li hanno. Essere gay, oggi, deve voler dire essere femminista, e trans-femminista. Altrimenti, non sei della mia balotta».
L’argomento lo appassiona al punto da fargli superare gli argini dei formalismi da intervista, e usare lo slang bolognese, città alla quale è legato a filo doppio. «Quando voglio sentirmi in pace, vado ai Giardini Cassarini, che infatti sono di fronte al vecchio Cassero: li frequentano in pochi, quasi nessuno. C’è un homo-monument, un triangolo rosa dedicato alla memoria delle persone omosessuali e trans vittime della persecuzione nazi-fascista, l’unico in Italia, uno dei pochi al mondo. Insomma, non voglio venderti questa città come cool e spero non lo diventi mai, ma per quanto mi riguarda è un posto romantico, sensuale, che però ha un rapporto crudo con la realtà: Bologna è il mio timone, perché mi ricorda da che parte devo stare».
Da che parte deve stare, Luchino lo ha esplicitato ancora meglio con la collezione per la prossima primavera/estate 2023: in una fabbrica abbandonata, i modelli passeggiano – «Sandro Penna è, non a caso, il poeta delle passeggiate» – quasi abbracciati dai loro vestiti, memorabilia tessili di tempi passati: i pantaloni formali si arricchiscono di maxi tasche funzionali, pannelli di organza si sovrappongono a camicie casual, i pigiami in seta a micro-motivi stampati sono stropicciati dal letto, resi giornalieri da un maglione annodato al collo quasi per caso.
La transizione tra giorno e notte, il volontario disallineamento alla velocità rutilante del contemporaneo, per favorire una lentezza malinconica, che indossa camicie con stampe hawaiane per ricordare lontani luoghi di vacanza dove non si è mai stati, è così diventata cifra identificativa del designer: «Voglio che si intuisca dai vestiti ma anche dai volti, la fragilità, la presenza di una voce e di un passato potente, capace però di tremare, è l’elemento portante della mia ricerca. La difficoltà è evitare di ricadere nello stereotipo dei personaggi al di fuori della cerchia delle grandi città, creando certe cartoline pacificate alla Chiamami col tuo nome. Gli uomini – e le donne – di cui parlo io abitano uno spazio magico, mistico, quella provincia dove tutto si mischia, che comunque rimane ruvida come la descriveva Tondelli, ma non per questo meno romantica. Perché in fondo il mio peccato è quello: io, romantico e nostalgico, lo sono fin troppo».
Un peccato veniale che gli si perdona facilmente, quando sul finale della sfilata parte Arrivederci di Umberto Bindi, uno dei più raffinati compositori della scuola genovese, discriminato per tutta la vita da major e festival sanremesi per la sua omosessualità: con il suo passato, con la provincia, l’Italia deve ancora iniziare a fare i conti, e Luchino Magliano
in fondo, è qui per ricordarcelo.