Un viaggio carico di emozioni che si snoda tra i vicoli del Raval (Barcellona), le sonorità inconfondibili di Shinjuku (Tokyo) e la purezza di un concerto a quattro mani con Alice Sara Ott alla Maison de la Radio di Parigi. Un incontro che porta a riflettere sulle similitudini tra musica classica e contemporanea, ma anche tra musiche e architettura, alla riscoperta delle teorie cosmiche di Iannis Xenakis, delle melodie di Bach e del leggendario Ryūichi Sakamoto. Un’ora in compagnia di Francesco Tristano è tutto questo e molto altro (qui trovate la playlist realizzata dal compositore per Linkiesta Etc). Resoconto di un incontro in un caffè parigino un pomeriggio di maggio.
Pianista, compositore e produttore lussemburghese di origini italiane con più di venti album all’attivo, a quarantadue anni hai inciso Bach per la Deutsche Grammophone, riletto Aphex Twin al piano solo, collaborato con Ryūichi Sakamoto e prodotto techno per Get Physical, etichetta berlinese di culto. Come è successo?
«Mia madre era appassionata di musica e sin da piccolo ha messo un pianoforte a disposizione. Così ho iniziato a suonare, improvvisare, poi a comporre e a studiare classica. Mi capitava anche di rifugiarmi nel jazz che per tanto tempo è stata la mia scappatoia, fino a che non ho scoperto la musica elettronica su MTV. A metà anni Novanta la hit Around the World dei Daft Punk spopolava, così come Cassius. A tredici anni, mi sentivo un po’ giovane per vivere il mondo dell’elettronica ma ne ero intrigato. Così a quindici anni ho lasciato il liceo a Parigi e sono partito a New York dove pensavo di fare jazz con tanti altri amici (in parallelo agli studi di musica classica NDLR) e invece sono entrato nel giro dell’elettronica, dei club e dei vinili».
Poi con un diploma della prestigiosa Julliard in tasca sei tornato in Europa…
«New York è stata una città dove sono cresciuto e che mi ha aperto le orecchie a nuove scene musicali. Di rientro in Europa, nel 2003, tutti i miei amici andavano a Berlino. Io invece ho deciso di fare tappa a Barcellona, una città avanguardista sia per la sua architettura che per la scena elettronica. Non l’ho mai più lasciata».
Come coniugare classica ed elettronica?
«A volte è difficile distinguerne i confini ed i limiti. Ancora oggi, nella musica classica suoniamo compositori morti da più di duecento anni. Anche la musica classica ad un certo punto è stata contemporanea: Mozart non ha mai scritto sinfonie o sonate classiche, componeva musica per opere contemporanee per la sua epoca. A dodici anni, solo mia madre ed i suoi amici assistevano alle mie recite. Allora mi chiedevo: dove sono i miei amici? Perché non vengono a sentirmi suonare? Ho capito che purtroppo la musica classica non è più al centro dell’interesse dei giovani. Trovo che questo sia un peccato perché il repertorio è un aspetto importante che arricchisce i ragazzi. Così ho deciso di offrire un’esperienza diversa: dalla programmazione alla scenografia, con un grosso lavoro sulle luci, il mio obiettivo è di attirare un pubblico non convenzionale. In questo percorso complesso ho avuto la fortuna di conoscere la gente giusta al momento giusto che mi ha sempre sostenuto. Ecco come trovo la mia complementarità in queste due forme di riproduzione che possono intersecarsi».
Sembra che quello che ti interessi più di tutto siano la musica e la cultura contemporanee…
«Storia e passato mi parlano, certo, ma ciò che mi fa vivere e vibrare sono la creazione, l’arte contemporanea, i progetti radicati nel presente. Mi piace parlare di musiche contemporanee al plurale, ci sono tante forme di fare musica. Il pianoforte, per esempio, è uno strumento che esiste da più di trecento anni ma che si reinventa di continuo a seconda del contesto e di chi lo suona. Esploro le possibilità più infinite del suo suono con mezzi acustici o elettronici. Ho la stessa ossessione per la qualità del suono quando interpreto Bach che quando eseguo musica contemporanea. Questo è un punto a cui il pubblico giapponese è molto sensibile. In Giappone c’è un pubblico di nerd pazzesco, unico in questo senso. È in questo paese affascinante che mi sono esibito in una prima tournée nel 2001. Lì mi sono innamorato della gente, del cibo, e di tutte le sue contraddizioni ed è a Tokyo che ho inciso Tokyo Stories, un album che esplora i suoni della città. Mi piace tornarci regolarmente».
A proposito di Giappone, che rapporto hai avuto con il leggendario Ryūichi Sakamoto?
«Ryuichi Sakamoto è stato per me un’ispirazione massima. Un grande professionista che ha realizzato progetti molto diversi tra loro: musicista, produttore, compositore di colonne sonore. Scoprire una sua mail rientrando a casa una sera tardi con una sua richiesta di collaborazione dopo che aveva sentito un mio remix di un suo brano è stata un’immensa sorpresa. Da allora ho avuto l’immenso piacere di lavorare con un grande amico con cui sono rimasto sempre in contatto fino alla sua triste scomparsa. Oggi restano una forte connessione con il suo ricordo e con la sua musica indimenticabile».
Ci sono dei tabù che vorresti rompere?
«In Giappone essere te stesso è un tabù. La società è strutturata in modo tale che l’uniformità sia il massimo obiettivo. Seguono tutti lo stesso percorso e chi fa di testa sua è malvisto. Forse qui in Europa è il contrario: quando facciamo una cosa sbagliata veniamo riconosciuti, e per questo ricordati. Il mio cammino non è stato ortodosso né lineare, il pubblico giapponese mi ha accolto con molto entusiasmo. Mi sento ancora più me stesso in Giappone che non qui in Europa, dove il paesaggio mediatico è forse più conservatore. La scoperta del Giappone ha rappresentato una grandissima libertà, mi ha permesso di fare quello che volevo: presentare il mio repertorio, la mia musica elettronica, affinare programmi che si distinguessero da quello classico. L’ambiente generale è cambiato, certe cose che non si potevano fare venti o trent’anni fa, oggi sono più accettate. I promoter, per esempio, cercano di rompere tabù generazionali, di stile, di programmazione, di scenografia. Personalmente, mi sono sempre ispirato a personaggi che, in ambito musicale, hanno sempre fatto il contrario di quello che ci si aspettava da loro. Quando ho iniziato a suonare il pianoforte tutti si aspettavano che avrei interpretato Chopin e Schumann. Sono più un tipo da Bach, amo le combinazioni non scontate. Nel futuro spero di rompere altri tabù avanzando in maniera progressiva. La qualità è il mio obiettivo ultimo, un concetto che mi ossessiona. In ogni progetto cerco di metterci tutto me stesso perché riesca bene».
Qual è il rapporto tra musica e architettura che emerge in Golden City Variations, un progetto che hai portato in scena nel 2016 reinterpretando Bach?
«Composta da ingredienti sapientemente dosati, la musica è come un piatto ben riuscito. È anche matematica e architettura: una partitura può essere analizzata per la sua struttura, le note, i valori, i ritmi. Nella musica di Bach trovo un senso di architettura superiore, niente è lasciato al caso. È la stessa logica di quando si costruisce una casa. Se c’è un angolo storto si rischia che tutto cada. Golden City Variations è progetto dedicato a Bach con un aspetto visivo architettonico. Per realizzarlo, ho lavorato con architetti e coder. Insieme abbiamo creato una città virtuale che si costruisse in tempo reale con tecnologie integrata a software: ogni nota suonata corrispondeva ad un elemento della città come un palazzo o un elemento strutturale.L’ultimo grande architetto in musica è stato Iannis Xenakis, grande compositore, architetto e ingegnere del secolo scorso. L’architettura era ciò che lo affascinava in ambito musicale, ancora più delle emozioni che un brano può suscitare. Noi ci siamo ispirati alle sue composizioni, alla sua Città Cosmica, una sorta di manifesto sulla città del futuro. Una città futuristica, soprelevata, associata all’idea di megastruttura, tipica dell’architettura e dell’urbanistica degli anni Sessanta-Settanta. In generale, la mia concezione dell’architettura va oltre Golden City Variations, si trova anche nella composizione di un programma ben strutturato, che colga l’attenzione del pubblico per novanta minuti».