Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Climate Forward in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
Siamo ormai in primavera e il tema della qualità dell’aria è già uscito dall’agenda politica e dalle chiacchiere che si fanno al bar, a differenza di questo inverno dove, per alcune settimane, è sembrata un’urgenza indifferibile, esaltata da classifiche globali sull’inquinamento alquanto discutibili, al punto da rendere quasi impossibile un dibattito consapevole.
La realtà è, a dire il vero, piuttosto complessa: da circa vent’anni la qualità dell’aria di Milano e di tutta la pianura padana migliora e il 2023 è stato addirittura il miglior anno di sempre. Eppure, all’inizio del 2024 abbiamo respirato per settimane un’aria pessima, della stessa qualità di quella che era abitudine respirare più di dieci anni fa.
I miglioramenti in corso sono innegabili, tuttavia troppo lenti rispetto all’esigenza di avere aria buona o almeno accettabile anche in condizioni di meteo critiche (cioè quando di inverno non piove e non tira vento per lunghe settimane). Del resto i miglioramenti son dovuti prioritariamente a due aspetti: regole globali che hanno migliorato ovunque le emissioni, e quindi anche nella pianura padana (ad esempio, auto e caldaie meno inquinanti) e politiche incisive dentro le città che hanno accelerato questi risultati.
È stata invece assente una politica pianificatoria del Nord Italia che provasse ad accompagnare il tessuto industriale, agricolo, la logistica e gli spostamenti dei pendolari verso un futuro più sostenibile che non fosse basato solo sui divieti. Anzi fa specie che, proprio nei giorni peggiori per l’aria, il governo abbia cantato vittoria per aver ottenuto altri dieci anni di deroga alla pianura padana per rispettare gli obiettivi di emissioni. Dieci anni che non sembrano impostati per raggiungere l’obiettivo, ma per procrastinare gli sforzi in vista di nuove deroghe. Del resto il tema non può nemmeno essere affrontato solo con le procedure di infrazione europee. A cosa ci serve una multa se poi le cose non cambiano?
Io non credo che dobbiamo occuparci della qualità dell’aria perché “ce lo chiede l’Europa”, che è una frase che chiunque ama l’Europa deve cancellare dal suo vocabolario. Lo dobbiamo fare perché abbiamo diritto di respirare aria migliore, come ne hanno diritto i nostri figli e le persone fragili. Possiamo trovare un sano punto di equilibrio tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale, se le cose vengono pianificate con intelligenza.
L’aria non ha confini e, purtroppo, delle politiche solo comunali non hanno nessuna efficacia. Al punto che se, ipoteticamente, bloccassimo il traffico e spegnessimo le caldaie a Milano per una settimana i dati potrebbero addirittura peggiorare perché le concentrazioni rilevate dalle centraline nel day by day dipendono più dalla capacità di dispersione (che dipende dal meteo) che dalle locali emissioni quotidiane, cosa peraltro sperimentata nei mesi di lockdown.
Allora bisogna mantenere il sangue freddo e accelerare cambiamenti strutturali. La direttiva casa green, ad esempio, può essere criticata nei suoi principi solo da chi è in malafede. In pratica dice di non sussidiare più nuove caldaie inquinanti e di incentivare invece quelle meno inquinanti (un tema ragionevole per qualunque legislatore lucido e che non ha impatti economici significativi per i cittadini) e di fare un piano di ristrutturazioni che in prospettiva riduca i consumi del 15 per cento. L’edilizia è uno dei pochi settori che crea ricchezza locale, uno dei settori trainanti dell’economia del Nord. Tutto sta a creare nuove regole che consentano, senza arrivare al buco di bilancio del 110 per cento, di sostenere questo obiettivo, magari indirizzandolo sull’edilizia pubblica e sui grandi caseggiati popolari privati delle aree urbane periferiche, che sono i più energivori, e controllando evidentemente spesa e risultati.
Sulla mobilità e la logistica va spostata la priorità dall’auto elettrica al fatto che il Nord non ha infrastrutture pubbliche adeguate per i trasporti. Significa concretamente ridurre, quasi azzerare, gli investimenti in nuove autostrade e concentrarli su una rete ferroviaria che raddoppi i pendolari trasportati (possibilmente in orario e in situazioni di comfort) e le merci, ad esempio anche con un secondo passante a Milano che aiuti la fluidità dei treni locali penalizzati oggi dall’alta velocità. Lo stesso discorso vale naturalmente per gli allevamenti, le industrie e la necessità di autoprodurre energie rinnovabili anche per ridurre l’esposizione delle imprese in momenti di crisi energetica.
Queste misure dovrebbero essere raccolte in quello che io chiamo Green deal padano e costruite tra le istituzioni locali, lo Stato nazionale, le imprese, le categorie e il mondo ambientalista per poi portarle al confronto con l’Ue cambiando appunto l’impostazione dal “ce lo chiede l’Europa”, a “cosa chiediamo noi all’Europa” per respirare aria migliore e continuare a fare impresa in modo innovativo.
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