Per un momento era sembrata cosa fatta. Un accordo tra Hamas e il governo israeliano per il cessate il fuoco sembrava dietro l’angolo, con il piano proposto da Joe Biden e l’apparente disponibilità delle due parti ad accoglierlo. Non è proprio così, non sarà così semplice. Molti osservatori e analisti sono profondamente scettici sul fatto che le parti riusciranno mai ad attuare un accordo che vada oltre una tregua temporanea molto breve.
Sul tavolo c’è un accordo in tre fasi, proposto da Israele e sostenuto dagli Stati Uniti e da alcuni Paesi arabi, che, se pienamente realizzato, potrebbe alla fine portare al ritiro totale delle truppe israeliane da Gaza, al ritorno di tutti gli ostaggi rimanenti catturati il 7 ottobre e un piano di ricostruzione del territorio. Ma questo diventa un traguardo impossibile se le parti non sono disposte nemmeno ad aprire un dialogo.
I leader di Hamas, per esempio, ripetono che non prenderanno in considerazione un cessate il fuoco temporaneo senza garanzie su un cessate il fuoco permanente che ne assicuri effettivamente la sopravvivenza, anche a costo di innumerevoli vite palestinesi, per timore che Israele ricominci la guerra una volta restituiti i suoi ostaggi.
La stessa cosa vale sul fronte opposto: affinché Israele possa accettare le richieste di Hamas per un cessate il fuoco permanente, dovrebbe riconoscere che Hamas non sarà distrutto e che continuerà a giocare un ruolo nel futuro del territorio, condizioni che il governo israeliano non può accettare.
Eppure, scrive il New York Times, «dopo otto mesi di guerra ci sono segnali che le parti potrebbero avvicinarsi alla prima fase proposta: un cessate il fuoco condizionale di sei settimane. Anche se questo passo è difficilmente garantito, arrivare alla seconda fase del piano, che prevede la cessazione permanente delle ostilità e il completo ritiro delle truppe israeliane da Gaza, è ancora più improbabile».
Parlando con il quotidiano americano, Natan Sachs, direttore del Center for Middle East Policy presso la Brookings Institution, ha detto: Questa proposta non può essere considerata più di un palliativo, soprattutto perché non risponde alla domanda fondamentale su chi governerà Gaza dopo il conflitto».
I leader di Hamas e il governo israeliano stanno valutando cosa comporterebbe l’accordo non solo per il futuro della guerra, ma anche per il loro stesso futuro politico. Per ottenere il consenso dei partner scettici per la prima fase del piano, Benjamin Netanyahu è particolarmente incentivato a mantenere vaghi i suoi impegni per le ultime fasi.
Più in generale, in ogni campo ci sono figure di un certo peso disposte a prolungare la guerra. Alcuni all’interno di Hamas, scrive ancora il New York Times, sostengono che il gruppo, dominato da coloro che sono ancora a Gaza come il leader locale Yahya Sinwar, non dovrebbe accettare alcun accordo che non crei immediatamente un cessate il fuoco permanente. Martedì, in una conferenza stampa, Osama Hamdan, portavoce di Hamas, ha detto che il gruppo non approverebbe un accordo che non inizi con la promessa di un cessate il fuoco permanente e includa disposizioni per il ritiro totale delle truppe israeliane e un «serio e vero affare» per scambiare gli ostaggi rimanenti con un numero molto maggiore di prigionieri palestinesi detenuti in Israele. Allo stesso modo, in Israele la semplice menzione della fine della guerra e del ritiro completo delle truppe ha portato gli alleati di estrema destra di Netanyahu a minacciare di far cadere il suo governo.
Intanto l’Idf fa sapere che l’ Aeronautica militare israeliana ha attaccato nella notte un complesso di Hamas all’interno di una scuola dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), nell’area di Nuseirat, «eliminando diversi terroristi che progettavano di compiere attacchi terroristici e promuovere attività terroristiche contro le truppe dell’Idf nell’immediato» futuro.
Negli ultimi giorni Israele ha nuovi problemi anche sul fronte libanese: sono aumentate le tensioni al confine settentrionale dello Stato ebraico, da mesi teatro di raid transfrontalieri tra le milizie di Hezbollah e l’esercito israeliano Idf. Dopo gli ultimi attacchi, che hanno provocato incendi nel nord di Israele, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha avvertito che il Paese è pronto per «un’azione molto intensa» lungo la frontiera.