Più Excel, meno filosofia Industrializzare l’artigianato per crescere sani

In qualunque impresa, piccola o grande che sia, i conti devono tornare. L’insuccesso fa parte del gioco, ma non bisogna andarselo a cercare

©LorenzoCevaValla

L’universo mitologico a cui la televisione ci ha abituati negli ultimi anni sa essere molto distante dalla realtà dei fatti. Talvolta esasperando il clima dittatoriale imperante nelle cucine di un certo livello – radicato in un fondo di verità sempre più sottile – talvolta dipingendo un’aura dorata attorno alle professioni legate al cibo, che sfocia inevitabilmente in falsi miti e facili illusioni. E adesso che lo chef è il nuovo calciatore (altro mestiere avvolto nella leggenda) occorre che la magia lasci spazio alla dura verità: sacrosanto il sogno di aprire un ristorante, finire sulla guida rossa e diventare famosi, ma prima di indebitarsi irrimediabilmente è opportuno armarsi (almeno) di un foglio Excel. Durante la terza edizione del Festival di Gastronomika ne abbiamo parlato con tre imprenditori che in modo molto diverso, ma altrettanto efficace, hanno affrontato questo tema.

Claudio Liu apre il primo ristorante del Gruppo Iyo nel 2007, mosso dall’ambizione di portare a Milano l’alta cucina giapponese. Con l’arrivo della stella Michelin nel 2015, il lavoro esplode e con esso la volontà di crescere, complice il fertile mercato milanese, sempre pronto ad accogliere chi ha delle buone idee. L’idea del delivery nasce qualche anno dopo, alle due di notte e dopo un bicchiere di vino, ma l’intuizione è seguita a ruota dal foglio Excel: perché mettere i numeri in ordine serve a garantire una crescita controllata.

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«I conti economici dovrebbero essere il faro di ogni azienda. Prima di avviare qualsiasi attività è necessario valutare le previsioni d’incasso, i costi del personale, delle attrezzature e del marketing, il tempo di ammortamento. Solo se sai quanto devi spendere e quanto hai a disposizione puoi definire un percorso sostenibile», afferma Liu con grande convinzione.

E così è stato anche per Aji, un format nato dall’esigenza di offrire il servizio take away ai clienti affezionati senza ingolfare la cucina del ristorante negli orari di punta. Oggi resta una delle poche realtà in Italia e in Europa a gestire internamente i processi end-to-end: dal sito e-commerce alle piattaforme di logistica dei rider, tutti i sistemi si parlano e ogni click viene tracciato; così diventa più semplice capire in quali zone investire.

Lo stesso approccio ha guidato l’imprenditore naturalizzato milanese nel perseguire il sogno in Porta Nuova, concretizzatosi nel 2019 con l’apertura del fine dining di “cucina libera” e del banco in stile omakase. E quando il Covid ha bussato alle porte – poco dopo – il servizio di consegna a domicilio ha attutito il colpo: «Bisogna sempre cercare di prevedere la catastrofe quando si avvia un business. Siamo stati chiusi un anno, ma Aji è stato un polmone importante». Così nel 2023 Claudio Liu è già pronto per avviare un progetto di espansione per Iyo: un nuovo locale ispirato al concetto di inclusività, con l’obiettivo di adeguare gli spazi alle esigenze dei clienti, dall’aperitivo al dopo cena, fino agli eventi privati.

“L’industrializzazione dell’artigianato” – come la definisce Anna Prandoni, moderatrice del talk – è forse l’unica strada possibile per scalare. E c’è qualcuno che su questa filosofia aziendale ha puntato sin da subito. Salvatore e Matteo Aloe – fondatori di Berberè – hanno aperto la prima pizzeria in provincia di Bologna nel 2010, e da allora non si sono più fermati.

Non avendo una tradizione alle spalle nel mondo della ristorazione, hanno avuto da un lato la libertà di interpretare la dimensione pizza a modo loro, dall’altro la necessità di tenere in piedi il business dal primo giorno. «I soldi sono un ingrediente imprescindibile, come la farina. Non è giusto chiedere sacrifici fotonici a chi lavora con noi, e neppure a noi stessi». Perché morire nel ristorante non può essere la soluzione, neppure quando si tratta del proprio.

La standardizzazione dei processi diventa così uno strumento utile alla sostenibilità economica dell’impresa (che poi sarebbe – anzi è – la conditio sine qua non per definirla tale). Va però accompagnata a una “narrazione artigianale” che tenga conto del vero motivo per cui le persone escono di casa per mangiare: trascorrere del tempo in compagnia dei propri cari. «Noi non siamo una fabbrica di cibo, ma vendiamo tempo libero», ricorda Salvatore Aloe. «Siamo molto più vicini a uno show business che a un’industria».

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I feticisti del settore – cacciatori instancabili di micro-produttori preferibilmente sconosciuti – tendono a condannare le catene per definizione, escludendo l’ipotesi che sappiano farsi ambasciatrici di un made in Italy tanto onesto quanto “normale”. E soprattutto dimenticando che il concetto di filiera tracciabile – di cui “i piccoli” si fanno promotori – su larga scala produce un impatto benefico notevolmente amplificato, dando da mangiare a molti professionisti che oggi faticano a sbarcare il lunario.

E poi c’è chi ha capito che – oltre a “sfamare” gli operatori del settore offrendo un’occupazione solida e un salario dignitoso – è possibile motivare i collaboratori coinvolgendoli dal punto di vista imprenditoriale, delineando per loro una carriera anche al di fuori delle cucine.

Quando Giancarlo Perbellini si è posto l’obiettivo di creare una proposta più “semplice” per fidelizzare il cliente che frequentava saltuariamente lo stellato, al posto del foglio Excel ne ha usato uno di carta, ma il principio alla base era il medesimo: valutare tutte le spese prima di avventurarsi nell’apertura di un nuovo locale, con il vincolo autoimposto di renderlo finanziariamente sostenibile tanto per i clienti quanto per i titolari.

Oggi il gruppo che porta il nome dello chef controlla (senza troppe ingerenze) nove locali: «E tutti hanno un’anima, spesso quella di un ex dipendente che è andato in banca e ha chiesto un prestito, trasformandosi così da cuoco in imprenditore».

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Tre storie di successo non ascrivibile alla fortuna, bensì alla professionalità di persone che non si sono improvvisate ristoratori, ma hanno ponderato con attenzione ogni passo, onde evitare di farlo più lungo della gamba. Ma questo non è sufficiente a tutelarli dall’ormai chiacchieratissimo problema che affligge la ristorazione: la carenza di personale. Ed è troppo facile pensare che i giovani di oggi non abbiano voglia di lavorare solo perché non sono più disposti a sottostare a dinamiche alienanti o eccessivamente gravose, per quanto consolidate. È invece più scomodo ma forse più utile mettersi in discussione, come esorta a fare Claudio Liu: «Abbiamo mai considerato di investire sulle persone sviluppando un piano di crescita per loro, implementando politiche di welfare, mostrando maggiore interesse per i loro sogni e le loro ambizioni? I due giorni di riposo sono fondamentali ma non bastano più, dobbiamo cambiare testa noi datori di lavoro se vogliamo essere più appetibili e catturare talenti».

Tutte misure necessarie, che probabilmente in futuro saranno annegate tra le voci dello scontrino: ma è giunto il momento – per noi consumatori – di accettare che un pasto completo a venti euro implica inevitabilmente qualche forma di sfruttamento, che sia della materia prima (in termini di calo della qualità) o della forza lavoro.

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