«Alla fine, bisogna fatturare, altrimenti l’attività non sta in piedi». Tutti lo pensano, pochi lo dicono – perché in Italia sta male parlare di soldi – e sempre meno ci riescono. Il fenomeno delle meteore, particolarmente evidente nelle grandi città, nasce spesso dalla mancata consapevolezza di coloro che si improvvisano professionisti del settore sperando di riuscire a cavarsela (solo) con piatti e drink belli e buoni. Una condizione necessaria ma non sufficiente per fare impresa: perché i ristoranti e i bar sono delle aziende, con costi e ricavi. E quando i primi aumentano, i secondi devono seguirli a ruota.
Ma se non so quanto mi costa un piatto o un cocktail, come faccio a stabilire un prezzo sostenibile (per tutti)? E soprattutto, dopo averlo stabilito, quali strumenti ho per renderlo coerente con il valore percepito dal cliente? Ne abbiamo parlato con i giovani rappresentanti del settore durante l’hackathon della terza edizione del Festival di Gastronomika.
Se di food cost si parla sempre più spesso, il beverage cost è assai più trascurato ma altrettanto fondamentale per migliorare il menu, individuare gli sprechi e aumentare i profitti. Naturalmente il fattore più incisivo è costituito dagli spirits, le cui dosi andrebbero rispettate con un certo rigore. E poi ci sono i costi nascosti o indesiderati: sbagli dei fornitori, rotture, furti, bevute gratis e consumazioni dei dipendenti, errori nella gestione delle comande o nell’esecuzione dei drink, prodotti alterati o scaduti, inefficienze nei turni. E l’aperitivo non ce lo mettiamo? Un momento di spensierata convivialità che nel corso degli anni si è trasformato dalla semplice bevuta con stuzzichini all’abbuffata passata alla storia con il nome di apericena. E il costo di tutto questo cibo va considerato nel computo.
L’operatore? È indubbiamente la voce più significativa del bilancio, ma anche quella più difficile da comunicare e da valorizzare agli occhi del cliente. Ma il professionista deve essere pagato, in modo regolare e dignitoso, soprattutto quando è capace di intrattenere, consigliare e raccontare ciò che ha messo nel bicchiere, creando la famosa “esperienza” che molti consumatori non riescono ancora ad apprezzare nella sua rilevanza. Perché non riflettono sull’importanza di quell’insieme di gesti, parole e sensazioni (non necessariamente gustative) che ti fanno esclamare con soddisfazione: «Sono stato proprio bene». E se un tempo si trattava di un’occupazione di ripiego, rimediata in attesa un “lavoro vero”, «oggi sono tantissimi i giovani volenterosi che cercano di costruirsi un futuro in questo settore», sostiene Martina Piccoli, chef docente del corso di tecniche di cucina di ALMA.
La missione degli operatori di settore non si limita alla preparazione del cocktail (o del piatto) ma deve spingersi oltre, affinché i frequentatori del bar (o del ristorante) possano comprendere e approfondire – se interessati – il lavoro dietro le quinte, dalla selezione dei fornitori allo studio delle ricette. Tutte attività che richiedono testa e tempo, e che pesano sulle spalle dell’imprenditore. Perché «nessuno nasce imparato», e per questo diventa essenziale (in)formare, chi sta seduto a tavola o sullo sgabello, e soprattutto chi sta in sala o dietro al bancone.
«La formazione è un investimento che purtroppo non garantisce sempre un ritorno», riflette Katheerine Rios, chef peruviana che sta per aprire con suo marito Simone Nebbia il ristorante Nina a Palestro. Se manca la predisposizione all’apprendimento, stanziare un budget per il consulente esterno e pagare gli straordinari ai dipendenti non conviene.
E se fosse un tema di motivazione? «In Italia non esiste una figura contrattuale, non c’è una gerarchia e i ruoli sono definiti solo in base agli anni di esperienza», puntualizza Daniele Celli, bar manager del Principe Bar nell’Hotel Principe di Savoia – Dorchester Collection di Milano. Probabilmente perché non esiste un titolo di studio, e questo dimostra come la formazione sia profondamente sottovalutata in questo settore.
Eppure, spetta proprio agli operatori il compito di aumentare il valore percepito sfruttando la magica arte dello storytelling.
«Ma c’è sempre un limite», sottolinea Carlo Carnevale, moderatore del tavolo. Serve un giusto mix di esperienza e sensibilità per leggere la situazione e adeguare il racconto di conseguenza: un ospite che neppure saluta difficilmente sarà interessato a conoscere vita, morte e miracoli di un produttore di spirits. Anche durante una cena romantica o un incontro di lavoro è preferibile fornire poche informazioni, poco tecniche e facilmente comprensibili, adatte a un pubblico potenzialmente distratto.
L’approccio al consumatore non dipende solo dalla situazione, ma anche da quell’insieme di abitudini e comportamenti sociali radicati in un territorio, che Carnevale battezza come “cultura di piazza”. E questa incide inevitabilmente sui costi: «A Padova lo Spritz è sacro, e non è pensabile proporlo a più di cinque euro», fa notare Niccolò Bovenzi, tecnologo alimentare, consulente e barman presso Smile Tree a Torino. Quando la volontà di mantenere la tradizione accessibile a tutti trasforma il drink in una commodity, risulta impossibile lavorare sul valore percepito, perché nessun tipo di servizio sarà capace di giustificare una cifra più alta alle persone del posto, e il rischio di incoerenza tra domanda e offerta diventa altissimo.
A meno di non riuscire a sfruttare la cultura come alleato per innovare, partendo dai grandi classici. «Come ha fatto Leonardo Veronesi, paladino della grappa in miscelazione e co-creatore di Ve.n.To, il primo cocktail ufficiale Iba realizzato con il distillato di vinacce italiane», ricorda Andrea Pomo, bartender e brand ambassador del rum Santa Teresa.
Proprio adesso che la ristorazione torna a puntare sulle “tovaglie a quadretti”, tra enoteche con cucina e trattorie moderne, il ritorno al passato potrebbe essere la chiave per scrivere il futuro. Pochi ingredienti bilanciati bene, no garnish, bicchiere minimal. E anche meno lavorazioni a livello di spirits: «Dopo aver raggiunto la standardizzazione, stiamo tornando al concetto di qualità intesa come genuinità e non interventismo. Un approccio molto simile a quello del vino naturale», osserva Matthieu Lelaurain, marketing manager di Velier.
Ma allora dove sta l’innovazione? «Magari non ci saranno innovazioni ma riscoperte! Come la gestualità del professionista, che sempre più spesso interviene in sala per completare il piatto sotto i riflettori di Instagram», afferma Marianna Petracca, docente e coordinatrice del corso di sala, bar e sommellerie di ALMA.
«La vera innovazione sarà riuscire a reinterpretare il ruolo dell’oste come forse si è smesso di fare», suggerisce Carnevale. Magari prendendo esempio dalla filosofia omakase: anticipare i bisogni del cliente, abbattendo le barriere tra guest e host per creare una connessione umana che rende il momento irripetibile (Ichigo ichie). Certamente non siamo pronti – e forse non lo saremo mai – per la “lentezza” tipica dell’ospitalità giapponese, ma possiamo (ri)cominciare con un bel sorriso e un bentornato.