Bianco e nero, morbido e affilato, meok e stoffa: si tratta di opposti che convivono perfettamente, trovando nuove sinergie, nel linguaggio visivo di Sang A Han, artista sudcoreana che crea inusuali sculture in tessuto. Nel 2023 le sue installazioni sono state esposte a Miart, fiera internazionale di arte moderna e contemporanea di Milano, catturando l’attenzione di Annamaria Maggi, direttrice della Galleria Fumagalli, che un anno più tardi ha deciso di dare spazio a Black flame, la prima mostra dell’artista coreana, aperta fino al 13 settembre.
Per l’occasione abbiamo incontrato Sang A Han negli spazi espositivi di via Bonaventura Cavalieri 6 (Milano), per condividere i retroscena – alcuni più intimi – dietro l’ideazione delle sue opere. Non a caso tra i tanti episodi raccontati, quello più personale e esplicativo è legato ai suoi figli. Infatti, se da un lato è vero che le statue sono di stoffa, non si può dire altrettanto che siano rassicuranti come un peluche per un bambino, anzi: le sfumature di nero incupiscono le sue creazioni e inoltre le scene ritratte, seppur evocative, appaiono crude e realistiche. I suoi figli, infatti, se ne tengono ben lontani, evitando all’artista di doverle nascondere e fare da guardia. Un episodio spiritoso svelato da Sang A Han sottende l’importanza che il ruolo sociale di “madre” ha all’interno delle sue creazioni. Tra le scene che spesso rappresenta, infatti, ricorrono quelle legate alla maternità o il momento del parto.
Tutte le sculture che crea sono realizzate in cotone, fissate con punti di cucitura molto visibili, quasi vivi, imbottite e infine dipinte in nero tramite l’ausilio del meok – l’inchiostro di china – che generalmente viene usato su carta, ma che Sang A Han sperimenta sul tessuto. Il motivo di questa scelta è sia estetico, sia tecnico. L’artista, infatti, ci ha spiegato che «il tessuto è più caldo della carta, quindi se la diffusione del meok sulla cellulosa è istantanea, sulla fibra, invece, avviene per assorbimento graduale». La progressiva propagazione della china nel tessuto è, tra le altre cose, una rappresentazione di come il corpo sia in grado di trasformare le esperienze in segni tangibili: «Il mio lavoro inizia dai ricordi, non quelli che si imprimono immediatamente nella mente, piuttosto le sensazioni che penetrano lentamente nelle fibre del mio corpo».
A posteriori, riflettendo sulle parole dell’artista e sul tipo di lavorazione della stoffa, si può notare una caratteristica ricorrente nelle sue soffici opere, ossia l’ambivalenza. Nello specifico, nelle creazioni di Sang A Han agiscono sempre due opposti, come i colori, gli strumenti di lavorazione e i significati. Ad esempio, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, a primo impatto si potrebbe pensare che le sfumature di nero, i soggetti e i simboli ritratti celino significati spirituali o ricordi tenebrosi, ma l’ambivalenza in questo caso si concretizza nel disinteresse dell’artista a una critica sociale o una provocazione.
Questa attitudine è palese con l’uso dei simboli religiosi buddisti, di cui la creativa di Seul si serve soltanto per semplice ispirazione, come nel caso del mudra, gesto in cui i palmi delle mani si uniscono e che rappresenta soltanto per senso estetico. Allo stesso modo la consonanza di forme e sfumature che modella le statue è una continua celebrazione della natura, del corpo e dei sogni, attraverso cui l’artista narra la sua vita frammentata di donna, creativa e madre. Dunque, le sue opere mirano a essere didascaliche, quindi significano quello che si vede.
Infine, abbiamo all’artista di condividere una sua personale interpretazione del concetto del tabù, tema su cui è incentrato il prossimo numero di Linkiesta Etc, in uscita il 20 giugno. La sua risposta ha contribuito a fornire una sfumatura ancora diversa per l’artista di Seoul: il tabù è da ricollegarsi a un’idea temporale, piuttosto che intrinsecamente concettuale, perché superarlo significa «non rimanere nel presente».