ForzalavoroPerché dovremmo occuparci dei patti di non concorrenza

Negli Stati Uniti li hanno appena vietati. In Italia non ne parlano né i politici né i sindacati. Eppure interessano due milioni di dipendenti, sono spesso usati in modo illegittimo e contribuiscono a mantenere bassi i salari e a bloccare la mobilità dei lavoratori. Iscriviti alla newsletter di Lidia Baratta!

(Unsplash)

Negli Stati Uniti li hanno appena vietati. Eppure i cosiddetti “patti di non concorrenza” sono molto diffusi anche in Italia. Se ne parla pochissimo. Non ne parlano i politici. E gli stessi sindacati non ne fanno cenno, nonostante questa pratica contribuisca a mantenere bassi i salari italiani.

Di cosa parliamo I patti di non concorrenza sono accordi o clausole inserite nei contratti di lavoro che vietano a un lavoratore di licenziarsi per spostarsi in un’impresa concorrente o per avviare una società nello stesso settore. In teoria, si fanno per proteggere i segreti industriali e per evitare che, nel caso un dipendente riceva una formazione specifica, questo investimento vada disperso se lo stesso lavoratore applicherà poi queste conoscenze in un’altra azienda rivale.

Ma c’è un ma Come spiegano Tito Boeri, Tommaso Crescioli, Andrea Garnero e Lorenzo Luisetto sulla rivista Eco, queste clausole però possono essere usate dai datori di lavoro anche per limitare la mobilità dei lavoratori e mantenere salari più bassi di quelli che esisterebbero in un mercato in cui i lavoratori possono liberamente cambiare azienda nello stesso settore. Senza dimenticare che accordi di questo tipo possono limitare anche la nascita di nuove imprese.

Vietarli? Ecco perché le autorità garanti della concorrenza guardano a questi “patti” con particolare attenzione. La Commissione europea, ad esempio, ha pubblicato da poco un policy brief per l’applicazione della disciplina Antitrust ai rapporti di lavoro. E sotto osservazione ci sono anche queste clausole. 

La via americana Il 23 aprile 2024, la Federal Trade Commission degli Stati Uniti ha deciso di vietare del tutto l’uso dei patti di non concorrenza nei contratti di lavoro. La decisione è arrivata dopo una serie di studi accademici che, comparando l’andamento dei salari in diversi Stati americani, hanno messo in evidenza che restringendo la mobilità dei lavoratori, questi patti tendono a soffocare la diffusione della conoscenza, riducendo la concorrenza anche sul mercato dei prodotti, con un effetto negativo sull’innovazione e persino sulla crescita.

Non solo. Sui giornali e nei tribunali americani sono finiti anche i cosiddetti no-poaching agreement, cioè gli accordi sottoscritti tra aziende per non assumere i rispettivi dipendenti. Una questione che ha riguardato molto le Big Tech della Silicon Valley, ma anche catene di fast food come McDonald’s.

Una pratica diffusa Questi patti sono usati in tutto il mondo e interessano tra l’11 e il 30 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato. Sono diffusi soprattutto in Australia, Giappone, Regno Unito e anche in molti stati dell’Unione europea, tra cui l’Italia appunto.

Molti governi si sono già mossi per regolamentarli. In Austria, sono stati vietati per i lavoratori a basso salario nel 2006. In Norvegia, nel 2016 è entrata in vigore una legge che fissa in dodici mesi la durata massima delle clausole di non concorrenza, con l’obbligo in quel periodo di un salario pari alla remunerazione ricevuta nei dodici mesi precedenti. Anche in Finlandia, dal 2023 le imprese devono pagare un corrispettivo. Altre norme per limitarne l’utilizzo sono state proposte anche dai governi di Australia, Olanda e Regno Unito.

E in Italia? Da noi, il tema non è entrato per niente nel dibattito pubblico, nonostante la questione salariale resti una delle principali questioni dello scontro politico.

Eppure, da uno studio pubblicato sul Journal of Law, Economics, and Organization, emerge che circa il 16% dei dipendenti italiani del settore privato è vincolato da un patto di non concorrenza (cioè circa 2 milioni di lavoratori) e che questi patti sono spesso usati in modo improprio. Dopo i più noti accordi di riservatezza, si tratta delle clausole più diffuse nei contratti italiani.

Inoltre, queste clausole sono spesso usate in combinazione con altre, come la restituzione dei costi della formazione, con effetti restrittivi maggiori.

Cosa dice la legge I patti di non concorrenza in Italia sono disciplinati dal Codice civile (articolo 2125). La norma però prevede solo requisiti minimi di durata con l’obbligo di un corrispettivo, senza entrare nel dettaglio. E i contratti collettivi nazionali non svolgono alcun ruolo nel regolarli. Risultato: si decide spesso tutto in tribunale, con un grande margine di discrezionalità caso per caso.

Una delle ultime pronunce della Corte d’Appello di Milano, di marzo 2024, ad esempio, ha ritenuto nullo un patto di non concorrenza di una società di catering perché non erano indicati i limiti di tempo, luogo e oggetto, finendo per «comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore».Uno dei problemi è che questi accordi non riguardano solo professionisti o manager qualificati che hanno accesso a informazioni riservate, ma sono molto diffusi anche tra i lavoratori poco qualificati, impiegati in occupazioni manuali, con un basso livello di istruzione e di retribuzione, anche senza accesso ad alcun tipo di informazione riservata.

Per di più, spesso non specificano un corrispettivo né i limiti dei vincoli in termini di durata, settore o area geografica. Questo significa che, in teoria, sono nulli e verrebbero quindi dichiarati illegittimi in tribunale. Ma né i lavoratori né i datori di lavoro spesso conoscono a fondo il contenuto dei patti. Ad esempio, tra i direttori del personale che hanno dichiarato di aver proposto un patto di non concorrenza, è emerso che circa il 25 per cento ha una conoscenza sbagliata della legge.

Mercato bloccato Il punto è che anche i patti di non concorrenza illegittimi contribuiscono a ridurre la mobilità dei lavoratori italiani, già relativamente bassa rispetto agli standard internazionali, e a comprimere quindi i salari.

Tra i lavoratori che hanno preso in considerazione l’idea di cambiare lavoro, ad esempio, quasi la metà dice che il patto di non concorrenza è stato il principale ostacolo o uno degli ostacoli. Mentre un terzo dei datori di lavoro ha dichiarato che la clausola ha rappresentato un ostacolo all’assunzione di un lavoratore.

Queste clausole potrebbero essere quindi uno dei fattori all’origine dei bassi stipendi pagati da molte imprese italiane. Ma nessuno se ne occupa.

Come sollecitano gli economisti autori dell’articolo su Eco, forse è arrivato anche in Italia il momento di far qualcosa in merito. L’Antitrust potrebbe occuparsi di concorrenza nel mercato del lavoro. E i sindacati potrebbero affrontare il tema in fase di contrattazione collettiva, informando lavoratori e datori di lavoro quando i vincoli indicati sono illegittimi. Che non significa vietare del tutto i patti, ma almeno regolamentarli.

Certo, sarebbe un argomento più difficile da spiegare in un talk show televisivo rispetto alle campagne referendarie pro o anti Jobs Act o ai dibattiti urlati sul precariato e il salario minimo.

Ma possiamo provarci, no?

Tra l’altro, visti i numerosi rinnovi contrattuali previsti quest’anno, potrebbe essere un buon momento.

 

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