Persona e personaggioBerlinguer può essere raccontato anche oltre la sua canonizzazione

In “San Berlinguer: L’ultimo capo del popolo comunista” (Chiarelettere) Marcello Sorgi restituisce un’immagine meno santificata del leader del Pci, ma non per questo meno rispettosa della sua statura morale

LaPresse

La canonizzazione di Enrico Berlinguer inizia il giorno dei funerali, il 13 giugno del 1984. Il popolo invoca come un mantra il nome del capo mite e carismatico. Le mani del presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini appoggiate solennemente sulla bara. L’assenza del leader socialista Bettino Craxi al quale la famiglia, pochi giorni prima, aveva negato la visita in ospedale dopo l’ictus che aveva colto Berlinguer durante un comizio a Padova. È il martirio del primo militante innalzato sull’altare nel punto più basso della sua parabola, descritta da Marcello Sorgi (“San Berlinguer. L’ultimo capo del popolo comunista”, Chiarelettere) senza l’esaltazione mistica che ne fanno i boomer berlingueriani.

Nel libro dell’ex direttore de La Stampa e del Tg1 c’è grande rispetto per il leader del più grande partito comunista d’Occidente, che a Mosca (3 novembre del 1977) afferma il valore universale della democrazia. Sotto lo sguardo arcigno del politburo sovietico, che faceva sembrare quell’uomo magro ancora più curvo sulle spalle. E nel 1981, dopo la presa del potere del generale Jaruzelski in Polonia, parla della fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre.

Stupenda la prima parte, che ci accompagna nell’atmosfera della redazione di un piccolo e glorioso giornale, L’Ora di Palermo, dove un giovanissimo Sorgi ha imparato il mestiere alla corte del mitico direttore Vittorio Nisticò. Il compromesso storico, visto da quella redazione dove era di casa Leonardo Sciascia, aveva il sapore amaro di una coltellata al cuore, soprattutto a quello dei cronisti più giovani, mentre i più vecchi l’accettavano come i fedeli di una religione vivono il mistero della fede.

Le logiche geopolitiche del capo di Botteghe Oscure, le analisi sul golpe in Cile, le ricadute in Italia non potevano convincere chi ogni giorno scriveva di mafia e politica, di morti ammazzati (la scrivania di Mauro De Mauro era rimasta vuota), della Democrazia cristiana che aveva il ghigno di Ciancimino. Insopportabile che fosse Giulio Andreotti il premier del compromesso storico, il terminale romano di Salvo Lima e delle correnti della Dc che quei giornalisti comunisti di frontiera conoscevano molto bene.

Nel 1975 Enrico Berlinguer aveva attraversato quella redazione sotto lo sguardo adorante dei giornalisti. Era venuto a Palermo per incontrare Sciascia, che il Pci voleva candidare come indipendente al Consiglio comunale. Un incontro tra due silenzi, tra un sardo comunista e un siciliano indipendente e testardo: non proferirono parola, ma tanto bastò per iniziare un rapporto politico che durò però pochissimo, anche a causa del compromesso storico.

Sorgi non è clemente nei confronti di Berlinguer. Ripercorrendo la sua biografia giornalistica prima a Palermo poi a Roma per Il Messaggero, tira giù il santo ma in maniera rispettosa della sua statura morale. Racconta Berlinguer a Botteghe Oscure, inavvicinabile nel Transatlantico di Montecitorio. «Rivolgetevi all’ufficio stampa», era la risposta scostante alle domande dei giornalisti, che sapevano perfettamente che dall’ufficio stampa uscivano solo veline. Al santo non si poteva parlare. Un’eresia chiedergli cosa pensasse della teoria di Rossana Rossanda sui brigatisti usciti dall’album della famiglia comunista.

Sorgi scrive che il terrorismo era diventato «di massa». «C’è una domanda che i compagni del Pci non vogliono rivolgere neppure a sé stessi: non sarà stato il “compromesso storico”, non saranno stati l’austerità e i sacrifici chiesti a lavoratori che già faticavano ad arrivare alla fine del mese, a provocare la fuoriuscita verso la lotta armata e l’illusione della rivoluzione che il Pci aveva da tempo – giustamente – abbandonato per sempre? La risposta a questa domanda, che pochi osano porsi, è sì. A darmela non è uno dei comunisti della periferia del partito, uno di quelli che parlano con gli occhi e che mantengono il contegno pieno di cautele a cui sono stati formati. È invece il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa».

Nel 1979 il Pci perde un milione e mezzo di voti, ma si attesta al trenta per cento. Del resto, dopo la grande avanzata elettorale del 1976, Berlinguer “regala” ai suoi elettori il Governo di Belzebù. Esplode nelle università il movimento del ‘77, le Br uccidono Aldo Moro, i giornalisti Casalegno e Tobago. Nasce l’astro di Craxi, che considera Berlinguer un dinosauro della politica: «Con uno che a casa non ha neanche la tv a colori non potrei mai allearmi».

Nel 1981 Berlinguer scaglia la questione morale contro i partiti e il principale avversario, il Psi. Una premonizione di Mani pulite, ma anche una denuncia anticasta dal sapore populista, che si accompagna alla svolta ambientalista e al blocco dei missili nucleari davanti ai cancelli della base militare di Comiso. È il canto del cigno di un leader che non ha più una forte e lineare proposta politica, il coraggio di sfidare Craxi sul terreno moderno della socialdemocrazia e di cambiare nome al partito. Eppure nel 1974 la tentazione l’aveva avuta. Sorgi riporta il racconto di Achille Occhetto, allora segretario in Sicilia. Berlinguer è ad Agrigento impegnato nella campagna elettorale per il referendum sul divorzio. Prima del comizio Occhetto entra nella stanza del segretario, che gli chiede a bruciapelo: «Cosa ne diresti se cambiassimo nome al partito? Tu che nome sceglieresti?». Occhetto propone «Partito comunista democratico». «Non sono d’accordo – risponde Berlinguer – per due ragioni. La prima è per l’aggettivo “democratico”, perché starebbe a dire che finora non lo siamo stati. La seconda è che se restasse anche “comunista”, il passo sarebbe troppo piccolo».

Alla fine il santo non scuoterà la chiesa comunista, popolata da vecchi stalinisti e da giovani militanti educati alla diversità, all’odio verso il rinnegato Craxi e alla mutazione genetica dei socialisti. Il coraggio di considerare archiviata l’esperienza di Berlinguer toccherà proprio a Occhetto nell’89. Nell’intervista che Sorgi pubblica in coda al libro, l’autore della svolta della Bolognina dice che «non giova alla memoria di Berlinguer il ritratto patinato di lui che viene fuori a ogni anniversario. Berlinguer va rivisto guardandolo attraverso il ruvido corpo della storia, invece di presentarlo solo come una figura mitica, alla Che Guevara. Non lo si può imbalsamare. Berlinguer era un uomo di grandi concetti, pensieri lunghi, ma capace di piccoli passi».

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