Il bel libro che Paolo Franchi ha dedicato alla biografia di Gianni De Michelis (“L’irregolare”, Marsilio Editore) è anche una ricostruzione delle traversie della parte più turbolenta della Prima Repubblica, ben sintetizzata nei suoi tratti fondamentali.
Turbolenta e tormentata, perché si va dalla fine dell’adolescenza della Repubblica al tramonto triste e velenoso di un’epoca intera piena di ombre ma anche di luci, travolta dall’epopea giudiziaria detta di Mani Pulite.
Insomma, dagli anni “spensierati” del centrismo e del miracolo, con Alcide De Gasperi che (come sottolinea un altro bel libro di Antonio Polito sullo statista DC), avendone già molte da risolvere nel Partito, mette le grane dello Stato economico-finanziario da ricostruire nelle mani di Luigi Einaudi e dei “liberali” anche quando quel partito non entra al governo, fino agli anni in cui sulle rovine del compromesso storico passeggia indisturbata e acriticamente applaudita la rivoluzione giudiziaria.
Il professore di chimica prestato alla politica, agitatore un po’ incompreso delle manifestazioni operaie nelle albe livide di Marghera, non poteva trovare un’epoca più adatta per esprimere la sua “irregolarità”.
Inizialmente lombardiano, interprete quindi di quella linea politica che correva sul crinale tra antiche battaglie di sinistra e nuove istanze di modernizzazione, De Michelis conserva dell’intuizione iniziale la parte più innovativa, in un certo senso persino eversiva, buttando via nel procedere del tempo le anticaglie e facendo emergere con sempre maggiore forza un riformismo creativo.
Un De Michelis da riscoprire e rivalutare, che Franchi evidenzia senza timori, meritoriamente controcorrente, visto che nell’immaginario collettivo del ministro ballerino e capellone è rimasta una convinzione critica del solito zelante e persino bacchettone conformismo italico, come spesso accade a chi non pratica la ruffianeria politica sistematica. Poco propenso per carattere al facile consenso, poco empatico forse per malcelata timidezza, Gianni ha respinto la popolarità, infilandosi come un ariete in mezzo alle situazioni più complicate, quasi vantandosene. Ma restando sé stesso, e questo è stato il lato più importante della sua personalità. Per gli amici una dolcezza di fondo, una piccola maggior disponibilità all’ascolto, ma poi nessuna concessione sostanziale: discussioni furibonde e anatemi quando necessario. Con quel suo sguardo di traverso, persino sprezzante.
Eppure, certe sue intuizioni, certe sue battaglie, come quella persa sulle pensioni, sono state forti e genuine, con un retroterra di preparazione autentica e mai di improvvisazione. Chi lo combatté, come i liberali, per ostacolare il suo disegno di far confluire alcune Casse privilegiate nel “calderone” Inps, dovette ricredersi il giorno in cui quel calderone salvò il futuro pensionistico di un’intera classe dirigente.
Per non dire della più lungimirante tra le sue visioni, quella sulla prospettiva dell’immigrazione africana, con la Cooperazione allo sviluppo antidoto a una “invasione” preconizzata molto in anticipo nei dettagli. L’avessimo ascoltato e creduto, sarebbe stato meglio per le generazioni successive.
È stato anche un grande ministro degli Esteri, dalle idee chiare sui fondamentali – Europa, amicizia con gli Stati Uniti, Nato – ma anche qui immettendo innovazione là dove l’Italia ha quasi sempre innestato il pilota automatico, lasciando fare, ben abbracciata ai luoghi comuni dell’europeismo della domenica e di un atlantismo senza approfondimenti.
Un talento di governo forse più che un talento politico in senso stretto. Fece sempre bene dove ebbe l’incarico di riformare e cambiare, anche sui terreni più complicati, come le partecipazioni statali, regno democristiano, o il lavoro, o appunto la politica estera.
Nel partito fu determinante nell’operazione Craxi, strappando il partito dal declino elettorale e anche questo soltanto lo consegna alla storia politica italiana cambiandone il senso di marcia rispetto alla lamalfiana “ineluttabilità” della prevalenza comunista.
Il Psi era in quel momento il partito degli “equilibri più avanzati” del vecchio prof. Francesco De Martino, lo slogan politico forse peggiore di tutta la storia repubblicana, se non altro perché riconosceva al Pci una primazia innovatrice che quella classe dirigente preberlingueriana, muffa filosovietica, proprio non meritava. E la svolta, certamente di potere, certamente generazionale dei neo sostenitori della segreteria Craxi restituì un partito fondamentale al circuito della politica, e in fondo fece anche bene al Pci. Da lì a poco, Enrico Berlinguer ebbe il guizzo più lucido della sua leadership, riconoscendo l’importanza dell’ombrello Nato sulla sua testa. La modernizzazione comunista si perse poi per strada, irretita dal compromesso moroteo, ma quell’intervista avrebbe potuto cambiare vent’anni prima la sorte stessa del comunismo occidentale.
E De Michelis comunque c’era, e c’era per consentire a Bettino Craxi di non essere solo una meteora lanciata da Claudio Signorile e Enrico Manca in attesa di una resa dei conti, ma per portare il partito a un futuro diverso. Riuscì alla fine meglio ai francesi e non agli italiani, ma la prospettiva era quella.
Ottimo lavoro di Paolo Franchi, dunque, a cui ricordiamo soltanto di non aver illuminato alcune intense relazioni personali di De Michelis, che hanno avuto un risvolto politico non secondario. Due in particolare, quella con Renato Altissimo e quella con Paolo Cirino Pomicino. Non si possono citare gli anni di De Michelis senza ricordare questi nomi.
Due rapporti ben diversi, intendiamoci, di amicizia dolce nel primo caso e di odio-amore nel secondo. Ma il Pli di Altissimo divenne negli anni del craxismo e del pentapartito un interlocutore non secondario del Psi (in alternativa al malmostoso rapporto di Craxi con il Pri) proprio grazie a Gianni, nel senso che il rapporto amichevole consentì il trasferimento di contenuti politici e programmatici tra due mondi – il socialista e il liberale – che non dialogavano dai tempi di Giolitti e di Turati, con le nefaste conseguenze che sappiamo.
Quanto a Pomicino, c’era tra i due una sorta di rivalità creativa sempre al rialzo, un dialogo alimentato dalle profonde differenze caratteriali e culturali, con la provenienza dello psichiatra napoletano da sponde assolutamente opposte a quelle del chimico veneziano. Ma si capivano ugualmente, un caso di fecondazione reciproca. Un bellissimo mix di idee e di creatività che ha fatto bene ai governi in cui entrambi hanno militato.
Gianni De Michelis, in conclusione, è stato uno dei tre “tenori” del socialismo riformista, con Giuliano Amato e Claudio Martelli. Dei tre, il soggetto più ruvido, meno narcisisticamente colto, meno sofisticatamente astuto, ma un vero panzer e un alleato fidato per il segretario anche nei momenti più difficili, quelli in cui restò solo.
Paolo Franchi ne fa un ritratto davvero affascinante, restituendogli un onore che merita, cui rese omaggio persino Giorgio Napolitano, molto tenace nella riscoperta delle sue qualità politiche, cui in due diverse circostanze gli amici hanno dedicato un bel tributo con due Convegni a lui dedicati, per una riscoperta che sembrava impossibile negli anni del declino fisico suo e della memoria corta degli italiani, già affascinati dalla rincorsa ai miti tristi (Segni, Di Pietro, Grillo) della nuova Repubblica.