Come ampiamente previsto, clima e ambiente non sono stati i protagonisti del primo dibattito televisivo tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Un confronto, quello tra Joe Biden e Donald Trump, che verrà principalmente ricordato per la performance debole dell’attuale inquilino della Casa Bianca.
Ma Trump, nel giro di un’ora e mezza, non ha perso l’occasione per confermare le sue pericolose tendenze negazioniste: la sua vittoria alle elezioni presidenziali sarebbe un problema sotto diversi punti di vista, compresi gli sforzi di mitigazione e adattamento climatici. Stando a un’analisi di Carbon Brief (Cb), una vittoria del tycoon a novembre porterebbe a un aumento globale delle emissioni di gas serra pari a quattro miliardi di tonnellate di CO2 equivalente entro il 2030. Quattro miliardi che causerebbero danni climatici per oltre novecento miliardi di dollari.
Passando al dibattito, Trump si è presto vantato dicendo che, durante i suoi quattro anni di presidenza (2017-2020), gli Usa hanno fatto registrare «i migliori risultati ambientali di sempre». Si tratta di un’affermazione falsa. Tra il 2017 e il 2019, ricorda il New York Times nel suo fact checking, le emissioni di gas climalteranti degli Stati Uniti sono rimaste più o meno le stesse, per poi calare nel 2020 – come in ogni grande Paese industrializzato – a causa delle restrizioni pandemiche.
«Trump non ha fatto niente per l’ambiente», ha risposto Joe Biden, ricordando che grazie alla sua nomina gli Stati Uniti sono rientrati nell’accordo di Parigi sul clima. Nel 2023, con Biden alla Casa Bianca, le emissioni del settore energetico statunitense sono calate del 4,1 per cento (-190 Mt) rispetto al 2022, mentre l’economia è cresciuta del 2,5 per cento. A ribadirlo è stata l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) nel suo consueto report annuale.
Firmato da centonovantaquattro Paesi e dall’Unione europea, l’accordo di Parigi sul clima punta a contenere l’aumento della temperatura media globale – rispetto ai livelli pre-industriali – sotto i +2°C e a perseguire gli sforzi per restare entro la soglia dei +1,5°C. «Questo trattato ci sarebbe costato mille miliardi di dollari. Alla Cina, invece, nulla. Alla Russia nulla. All’India nulla», ha detto Donald Trump durante il dibattito organizzato dalla Cnn.
Anche questa è una dichiarazione fuorviante. Con la firma dell’accordo di Parigi, avvenuta nel 2015 durante la Cop21, le Nazioni più ricche hanno accettato di aiutare i Paesi più poveri (e climaticamente più vulnerabili) ad adattarsi a questa emergenza. Sotto la presidenza di Biden, gli Usa si sono impegnati a erogare 11,4 miliardi di dollari annui entro il 2024 per il sostegno alle economie più minacciate dagli eventi meteorologici estremi: una cifra da destinare anche a nuovi progetti locali di energia rinnovabile.
Attraverso il fondo di cooperazione “South South” – non gestito dalle Nazioni unite – anche la Cina sta investendo del denaro da destinare ai Paesi – come quelli africani – più esposti al cambiamento climatico. Tuttavia, Joe Biden ha più volte esortato Pechino a donare più soldi, anche alla luce della sua rapida industrializzazione e del suo dominio nel mercato delle materie prime critiche (necessarie per costruire pannelli solari, batterie per le auto elettriche e altre tecnologie alla base della transizione energetica). La Cina, sulla carta, è ancora un Paese in via di sviluppo: non è ancora chiaro quale sarà il suo ruolo nel meccanismo del fondo Loss and damage (Perdite e danni), istituito per aiutare gli Stati più minacciati e, allo stesso tempo, meno responsabili della crisi climatica di origine antropica.
>Leggi anche: Putin, Trump e il negazionismo che influenza la diplomazia climatica