Confini, viaggi, tradizioni, mescolanze, arrivi, ritorni. Non è semplice racchiudere l’anima di un ristorante, quando al suo interno nasconde tante sfaccettature diverse, sfumature che vogliono disegnare un mondo dai dettagli non definiti, ma che accarezzano la bellezza multiforme del cibo e della sua essenza. Azotea è proprio questo: un viaggio con radici ed evasioni, dove ci si può permettere di lasciarsi andare per vivere un’esperienza. D’altronde non è questo lo scopo di un ristorante? Lo è, senza dubbio, anche se a volte, presi dalle mode e dalla poca sostanza, ci si ritrova in luoghi senza anima e sostenuti dall’apparenza e dalla finta ricercatezza. Azotea è tutto l’opposto e il merito è di una triade che sta portando a Torino un’idea bella e curiosa di fare ristorazione.
Il cuore di Azotea, a pochi passi dalla Gran Madre e Piazza Vittorio, sono Noemi Dell’Agnello e Matteo Fornaro, coppia nel lavoro e nella vita, nata timidamente a Cervinia e poi esplosa durante un’estate sotto il sole di Santa Teresa di Gallura nell’esperienza fortunata del Baretto, un piccolissimo locale, che ha avuto il merito di fare tanto parlare di sé per le proposte di miscelazione create da Matteo, grafico pubblicitario prestato proprio alla mixology. Da lì le idee sono state tante, ma con un unico comune denominatore: quello di raccontare la cucina attraverso il viaggio, prima con un locale di tapas e cocktail in Liguria, poi con l’approdo nel 2021 in una Torino dalla forte metamorfosi culturale e gastronomica. È qui che si sedimenta l’identità imprenditoriale di Noemi e Matteo, due generazioni diverse, che hanno trovato il modo di stare assieme e di creare una connessione tra il cibo, le tradizioni e il contemporaneo mondo della mixology.
Entrando da Azotea si percepisce subito questa commistione di stili e generi, e anche l’eclettismo che rappresenta sia Noemi che Matteo, apparentemente molto diversi nell’aspetto e nel carattere, ma entrambi intenti a modificare gli schemi della ristorazione. Lo si sente anche dal design con cui il locale è stato creato, con tre sale, una diversa dall’altra, che toccano diverse epoche temporali e anche differenti latitudini geografiche. E lo si sente, ancora e con più forza, nelle proposte gastronomiche, create dal peruviano Alexander Robles. Ecco l’ultimo pezzo della triade, uno chef nato nell’andina Cuzco, con una bisnonna giapponese tra le pieghe del DNA e un bagaglio di esperienze sparpagliate in Italia, prima di voler tornare per un po’ in Peru e assorbire quanto più possibile dalle sue origini.
Da qui prende vita proprio l’idea di base di Azotea, quella del viaggio e della migrazione del cibo che si sposta da un territorio all’altro con le persone, per mezzo delle persone. Grazie alle idee di Noemi e Matteo, in simbiosi con quelle di Alexander, Azotea si può definire un cocktail restaurant Nikkei, un connubio tra i sapori giapponesi e quelli peruviani. Se oggi la cucina Nikkei può essere definita quasi una moda, qualcosa di tendenza, in realtà evidenzia la capacità del cibo di adattarsi al tempo e alla culture dei popoli. Stiamo parlando, infatti, di un concetto gastronomico che trova le sue fondamenta nei flussi migratori che dal Giappone si spostavano, verso la fine dell’Ottocento, verso il Perù: Nikkei era proprio il nome con cui venivano chiamati questi migranti e oggi trova nelle cucine una rispondenza, che è stata capace di costruire una narrazione sulle radici di un popolo in viaggio.
«I confini sono linee virtuali che delimitano in modo oggettivo dove iniziano e finiscono geograficamente i Paesi» – racconta Alexander presentando il nuovo menu di Azotea, che prende il nome di Confini, proprio per raccontare il concetto stesso di una cultura gastronomica, che non vuole e non può essere intrappolata all’interno di definizioni politiche o geografiche. «La storia ci insegna che quelli attuali sono stati disegnati in tempi relativamente recenti e che, perciò, le culture di un Paese sono nettamente influenzate da quelle delle popolazioni circostanti. Lo stesso si può dire del Perù, un melting pot di usi e tradizioni, che in questo nuovo menu si esprime in tutta la sua moltitudine di influenze. Il percorso Confini è anche una cartina tornasole delle tendenze alimentari ancestrali. Tre piatti su sei sono vegetali, a dimostrazione del fatto che le alternative alla carne esistono da sempre. In passato, frutta, verdura, noci e radici erano parte integrante della dieta sudamericana – in particolare di Colombia, Ecuador e Perù – a differenza di carne e pesce, che erano presenti solo saltuariamente nella dieta».
C’è un punto di incontro anche con la nostra tradizione, quella mediterranea, molto diversa rispetto a come la raccontiamo oggi. Una tradizione che trovava nutrimento e forza dalla terra e dall’agricoltura, lontana da un consumo quotidiano di alimenti di origine animale e più vicina a un’alimentazione povera e poco processata. Il nuovo menu di Azotea è proprio questo, un ritorno alle origini, raccontato però con una contemporanea reverenza, quasi a voler mettere l’accento sul rispetto di ingredienti e ricette, senza dimenticare la mutevolezza temporale del cibo. La proposta prevede sia il menu alla carta, sia quello degustazione. Si tratta di sei portate, ognuna abbinata a un cocktail diverso, che toccano i vari Paesi dell’America del Sud. La Colombia con un tamales, altrimenti conosciuto come involtino, farcito con mais bianco e viola, kimchi di cavolo, rapanelli, sedano rapa e cipollotto, e servito insieme a un drink che vuole essere il ricordo dell’aguapanela, bevanda tipica sudamericana e qui servita insieme a passion fruit e lime, e anice stellato. L’Ecuador, con scorzonera, chica de hora, quinoa e pesto di coriandolo e patacones, in abbinamento con un cocktail a base di vodka, tequila, brioche, burro e cannella cinese, che fa venire voglia di gustarlo anche a colazione insieme al cappuccino.
Il Perù, il piatto forse principale del menu, che esalta il sapore del ceviche, piatto nazionale peruviano, qui preparato con l’okra sbianchita, l’olluco cotto sotto sale, le puntarelle e il daikon al naturale, ma anche mais choclo croccante, alga yuyo, composta di pere, mango e agrumi, leche al topinambur confit e polvere di loomi, una preparazione mediorientale a base di lime fermentati ed essiccati. L’Argentina, che porta il suo churrasco fatto qui con il diaframma marinato in una salsa piccato e servito con il nazionalissimo chimichurri, accompagnato da una rivisitazione del cocktail più consumato nel Paese, il Fernandito, a base di Coca Cola e Fernet Branca. In mezzo la Bolivia, con un bakchoy (il cavolo cinese) brasato con frutto della passione e lulo (altro frutto famoso in Sudamerica) e il Chile, con una vellutata di fagioli borlotti, lenticchie ed edamame come culla per un trancio di ricciola marinato al miso.
Lo abbiamo detto, ma è giusto sottolinearlo ancora: il percorso degustazione è un inno all’abbinamento con i cocktail. Azotea ha una carta dei vini interessante (con referenze internazionali sicuramente da provare), ma è con la mixoloy che Matteo esprime sé stesso al meglio, in un’espressione concettuale che lascia senza parole: «Ogni percorso degustazione è un viaggio in cui conduciamo i nostri clienti alla scoperta di luoghi, e di conseguenza ingredienti, esotici. In questo caso abbiamo deciso di accompagnarli a bordo di un Orient Express del Sudamerica. Nei cocktail ho cercato di riprendere le stesse sensazioni evocate dallo chef, utilizzando materie prime tipiche di queste aree geografiche, ma insolite all’interno di un cocktail». Impresa più riuscita, perché i cocktail di Matteo diventano parte integrante della proposta gastronomica, anzi: sono essi stessi una proposta gastronomica. Dimenticate i classici abbinamenti di spiriti e liquori: qui troverete una ricerca e una tecnica pari a quelle che si utilizzano in cucina. Tra i nuovi drink in carta, ad esempio, troviamo quello a base di melanzana, bruciata al cannello e cotta due volte, prima in forno e poi sottovuoto con mezcal e kiwi. O l’Oyster Martini, cocktail signature di Azotea, ritornato però in una veste nuova, dove la foglia ostrica è frullata insieme a Tanqueray Ten gin. Tutti da provare, magari facendosi guidare in un percorso che trova il suo senso proprio negli abbinamenti, tra ingredienti, portate e mixology. O, magari, lasciandosi trasportare dalle emozioni del viaggio, perché in fondo, come diceva lo scrittore americano Jack Kerouac, «basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo». Anche stando seduti a una tavola.