Il ristorante Condividere appare come un sogno che vive su una nuvola, “La Nuvola” di Lavazza: il futuristico centro direzionale dell’azienda italiana produttrice di caffè che sorge nel quartiere Aurora a Torino. La dimensione onirica di questo teatro gastronomico si deve all’opera dello scenografo premio Oscar Dante Ferretti, che tra pizzi metallici baroccheggianti e graffiti cartoon inserisce un «tributo al più grande valore del ventunesimo secolo»: il tempo. Una parete costellata di ingranaggi su cui spiccano sei orologi, ognuno con il proprio fuso orario, diventa così il pretesto per riflettere sul significato dei secondi, dei minuti e delle ore, e dei ricordi che sono capaci di catturare anche quando siamo a tavola.
Gli orologi di Dante Ferretti non sono molli e cremosi come quelli di Salvador Dalì ma esprimono la stessa preoccupazione per la relatività dell’esistenza, quella che ci spinge a godere fino in fondo dell’esperienza umana, anche nella sua accezione più edonistica e concreta. Non a caso, il motto «si vive una volta sola» accompagna volentieri le trasgressioni culinarie, e per lo stesso motivo non sarà un pasto da dodici portate a farci rinunciare al dessert. Perché lo sanno tutti che per quello c’è uno stomaco a parte.
Grande è allora la responsabilità del pastry chef: una figura professionale spesso bistrattata nell’immaginario comune e, talvolta, anche in quello di settore. Soprattutto nei fine dining, questo maestro dell’arte dolciaria ha il compito di concludere degnamente un percorso lungo e impegnativo, tanto per la brigata quanto per il cliente, senza interrompere un fil rouge faticosamente orchestrato. Deve restare aderente al canovaccio tenendo alto il ritmo, coccolare il palato e lo spirito, ma senza appesantire. E naturalmente fare in modo che l’ultimo ricordo di quel pasto sia indimenticabile.
La dignità dell’atto finale, non di rado sminuita dagli stessi ristoratori, ha ispirato Condividere sin dai primordi: una sala per il salato e una per il dolce, che nell’era post-Covid è stata ampliata con un dehors esterno. La filosofia della convivialità che sta alla base di questo progetto gastronomico si ritrova così nella proposta zuccherina, che (anche) attraverso un cambio di location acquista uno spessore più unico che raro: il cliente, al termine delle portate salate, viene invitato a trasferirsi in un ambiente pensato per gustare – senza fretta – il “Festival di dessert”. Non il classico cremoso, accompagnato da un crumble e da una quenelle di gelato, ma un percorso nel percorso che rompe gli schemi del più canonico dolce principale, in linea con lo stile dissacrante che caratterizza il ristorante torinese.
I divertissement creati da Luca Pellegrini e Lucrezia Giletti sono improntati su una leggerezza declinata sia nella sostanza che nella forma: la riduzione degli zuccheri unita a una masticazione essenziale concorrono alla costruzione di un boccone spesso impalpabile, quasi etereo, concepito per appagare la mente più del corpo. Una scelta che risponde all’esigenza di un consumatore già sazio: «non è fame, è voglia di qualcosa di buono», magari giocoso, e intellettualmente intrigante.
Questa degustazione non convenzionale vive nel limbo tra mignon e piccola pasticceria, offrendo ai due giovani pastry chef campo libero per le sperimentazioni: éclair che somigliano a savoiardi, tazzine da mordere, cheesecake che si trasformano in Babybel e altri bocconi stravaganti da mangiare possibilmente con le mani, quasi a voler cancellare i confini formali tra alta cucina e street food.
Proprio il cibo di strada, custode di un pensiero che trascende il bon ton, è stato scelto come tema della cena che ha chiuso la prima giornata del Festival di Gastronomika 2024. Per l’occasione, Luca Pellegrini e Lucrezia Giletti ci hanno sorpreso con “Hot dog?” e “Cocco bello”, esilaranti rivisitazioni di una pavlova e di un semifreddo. Pericolosamente golosi e leggeri, hanno evocato ricordi spensierati e gioiosi creandone al contempo uno nuovo. Non è forse questa la missione del pastry chef?