Sono le 20 e 55 di lunedì, quando sul mio telefono compare il messaggio che mai avrei pensato di leggere. Sono le 13 e 35 di martedì quando mi metto a recuperare “Otto e mezzo” e mi tocca dare ragione, in differita, alla mia amica del messaggio impensabile.
Il messaggio della mia amica diceva: oddio, Travaglio dice cose sensate. Il mio messaggio, inviato ieri in un momento di debolezza, dice: avevi ragione su Travaglio. È solo stanchezza? Siamo sfiancate da questi giorni di entomologia delle reazioni maschili? Forse, e tuttavia.
Sono piuttosto incosciente, e troppo vecchia per essere suggestionabile dai «siete tutte in pericolo, vogliono ucciderci tutte» delle ragazze che fatturano su Instagram alimentando la paura delle altre ragazze: non ho mai avuto paura di tornare a casa da sola, di girare per strada di notte (nemmeno a Bologna, dove tra buche e mancanza di luci si rischia se non la vita almeno le caviglie), non ho mai (incoscientemente) pensato che il mio essere esasperante potesse indurre il mio accompagnatore a farmi del male.
Da alcuni giorni, la cosa più vicina alla paura che conosco è quella che mi accompagna nell’aprire i giornali, i social, i luoghi in cui gli uomini ci spiegano che si sentono responsabili o non si sentono responsabili. Non è paura, lo so: è sfinimento d’un mondo in cui tutto viene definito narcisismo maschile tranne ciò che lo è.
C’è una ruota di pavone più evidente di quella del maschio che dice che lui non ha mai paura, noialtre sempre? Che anche se non si parla di lui decide che al centro del discorso c’è lui? Quelli che è-colpa-anche-mia e quelli che mia-proprio-no si percepiscono categorie contrapposte, ma sono identici esponenti dell’egocentrismo di massa.
Speculari. Il noto picchiatore di fidanzate che posta il suo bravo «Scusaci, Giulia». L’amico che mi tiene un’ora al telefono spiegandomi indignato che come si permettono di scusarsi a suo nome, lui mica ha mai fatto del male a nessuna.
L’altra sera, stremata dai posizionamenti, ho chiesto a uno di questi derelitti perché si sentisse chiamato in causa. Quando mi ha sottoposta al suo monologo di maschio che rifiuta di sentirsi in colpa, avevo appena finito di rimirare un tweet incredibile.
Il tweet era il fermoimmagine della sorella di Giulia Cecchettin che parlava coi giornalisti. La tizia che l’aveva postato diceva che lei, fosse morta sua sorella in modo atroce, non avrebbe avuto la forza di mettersi l’eyeliner (eyeliner con cui era truccata Elena Cecchettin).
La tizia aveva chiuso i commenti, e quindi c’erano novecento e spicci persone che, pur di dire la loro, l’avevano ritwittata chiosando coi loro aneddoti di lutto: io quando è morta mia madre sono andata dal parrucchiere eppure soffrivo tantissimo, e altri autobiografismi puntualizzatori.
Ho tentato di spiegare al mio amico che la sua indignazione per la chiamata a correo mi sembrava prestarsi alla stessa domanda che mi facevo davanti ai novecento retweet di aneddotica luttuosa: perché vi sentite chiamati in causa sempre e comunque?
Perché pensate che ogni generalizzazione vi riguardi? Perché ci tenete a specchiarvi in ogni superficie riflettente? Perché scambiate lo slogan del giorno per qualcosa che vada puntualizzato? Non potete non sapere che lo slogan di oggi sarà dimenticato dopodomani, su.
Ho detto al mio amico che, se qualcuno scrive che le donne sono tutte troie, io mica mi sento chiamata in causa, mica sento il bisogno di puntualizzare che non ho mai preso soldi per copulare. Lui mi ha accusata di astrattismo filosofico, ed è tornato a borbottare contro non so quale editorialista che aveva scritto che erano tutti colpevoli, senz’accorgersi che lui e l’editorialista volevano identicamente stare al centro del dibattito, uno dicendo «io sì» e l’altro dicendo «io no».
Mi sono tornati in mente ieri mattina, quando ogni giornale aveva il suo bravo scrittore che diceva che tipo di problema rappresentino i maschi per l’esistenza in vita delle femmine, da Paolo Giordano sul Corriere a Francesco Piccolo su Repubblica. Su Domani c’era Jonathan Bazzi che faceva un interessante discorso sull’eccesso di semplificazione necessario per avere successo sui social.
(Travaglio che dice sensatamente che ammazzare le donne è un tradimento sia dei valori di destra sia di quelli di sinistra e comunque come si fa ad avere certezze su come risolvere questo strazio; Bazzi che dice sensatamente che, con lo sloganuccio che liquida ogni tentativo di dire alle donne come difendersi come «colpevolizzazione della vittima», stiamo privando le ragazze del libero arbitrio e degli strumenti con cui tutelarsi: ricorderò questa settimana come quella in cui gli autori più impresentabili dicevano le cose più ragionevoli).
Ci ho ripensato perché, prima ancora di leggerne l’articolo, mi è comparso un video Instagram di Bazzi – uno il cui io narrante è maschile quanto quello di Francesco Piccolo: quello è «maschio meridionale che guarda i culi delle donne», questo è «maschio gay sieropositivo». Nel video Bazzi, guardando nella telecamera con la barba in primo piano, diceva: «Arriveranno le accuse di mansplaining, ricordo che io non sono maschio, non mi definisco maschio».
Non ho mai usato la categoria del mansplaining in vita mia (anche perché, tra me e qualsivoglia maschio, sarò sempre io quella che spiega prepotentemente cose: non è questione di gameti ma di brutto carattere, un settore nel quale sono imbattibile), e non avrei quindi mai detto che Bazzi nel suo articolo pontifica in-quanto-maschio. Però, ecco, mi sembra anche eccessivo pretendere che, se domani qualcuno ammazza Bazzi, si parli di femminicidio perché, ehi, lui mica si definiva maschio.
A proposito di quella parola orrenda e inutile che è femminicidio. Della stessa puntata che ci ha costrette a dar ragione a Travaglio, era ospite anche Serena Dandini. Che, col tono di una che ha fatto la resistenza sulle montagne e si trova davanti un’altra reduce, ha detto a Lilli Gruber: «Tu lo sai bene perché eri con me all’inizio, quando dodici anni fa abbiamo cominciato a usare questa parola, “femminicidio”, che quasi scandalizzava: come oggi scandalizza “patriarcato”, non so se hai notato».
Avrei volentieri borbottato «ma chi si scandalizza, Sere’, anche meno», ma purtroppo la stavo guardando in differita, e sui giornali c’era già l’indignazione della Meloni perché la Gruber, in un inciso che era evidentemente una battuta, si era chiesta se farsi chiamare «il presidente» fosse una scelta patriarcale, e come vi permettete di dire patriarcato a me che il padre non ce l’ho.
È incredibile la tenacia con cui, in questo secolo, in ogni dibattito riescono tutti ad avere torto. Gli uomini che si ritengono responsabili di ogni crimine commesso da un maschio. Quelli che si offendono perché loro responsabili non sono. Le disinvolte utilizzatrici della categoria «patriarcato». Quelle che si offendono perché tu a me patriarcato non me lo dici.
Ogni dibattito è pieno di torti e di sciatterie, e temo che, più che il patriarcato, ne sia responsabile la fine degli intellettuali, sostituiti da cercatori di consenso che, se vedono una ragazza devastata dal dolore che ripete, con la mancanza di strumenti culturali d’una ventiquattrenne, slogan che ha orecchiato su Instagram, allora si dividono in chi la eleva a faro culturale e chi la accusa di voler demolire l’ordine sociale.
Nessuno (tranne Travaglio, pensa te cosa mi tocca dire) che si senta in dovere di formulare un pensiero più articolato d’una ventiquattrenne la cui qualifica intellettuale è: parente della vittima. Tutti che si accodano, terrorizzati di venire esclusi dal tema del giorno, e di essere i dinosauri superati dalla modernità, come i dirigenti di Walgreens che si precipitavano a offrire soldi a Elizabeth Holmes per un macchinario medico non funzionante perché, ehi, è la Silicon Valley, mica vorremo restare indietro. (Sì, ho visto “The Dropout” in ritardo, e sì, l’ho trovato una metafora dei giornali all’inseguimento dei social).
Tutti smaniosi d’avere una cassetta della frutta su cui salire per dirci che loro in quanto maschi sono colpevoli, che loro al funerale della mamma si erano vestiti bene, che loro hanno la soluzione per un problema irrisolvibile, che loro saranno pure maschi ma sono beneducati, che il loro cugino una volta picchiava la moglie e loro l’hanno fermato, che la ventiquattrenne e il suo pensiero filosofico vanno studiati nelle scuole.
Al cui proposito. I social sono pieni di: no, non facciamo un minuto di silenzio, facciamo come dice Elena, bruciamo tutto. Spero che questo delirio resti nei telefoni e non venga portato sabato nelle piazze. Capisco che eventuali scontri con vittime sarebbero ottimi per il fatturato delle docenti di femminismo su Instagram, ma insomma, ragazze: cercate di badare a voi stesse, e non agli slogan di pronto commercio.
Agli slogan e ai posizionamenti travestiti da sensibilità. Sembra ieri che si posizionavano dicendoci perché era importante il film della Cortellesi, o perché avevamo il dovere d’essere migliori di Giambruno, e non c’è proprio nessuna differenza col posizionarsi rispetto al cadavere d’una poverina che ha fatto una morte orrenda perché era stata fidanzata col tizio sbagliato. Non che sia meglio di loro, io, che sto qui a rimirare un riflesso che non so più se è mio o di tutti loro che si specchiano.