Apriamo il siparioAnche la pizza è una questione politica

Il teatro può insegnarci molto anche se andiamo ad analizzare altri settori, come quello della pizzeria. Le dinamiche infatti spesso sono le stesse. Abbiamo cercato di scoprirlo insieme all’autrice e attrice Laura Curino

Raccontare il territorio locale, le caratteristiche autoctone, andare alla ricerca di piccole storie personali che raccontano anche il collettivo: è questo il compito del teatro di narrazione, che è arte ma anche politica, approfondimento sociale, inchiesta. Laura Curino ne è una delle protagoniste: autrice, attrice e regista, è Direttrice artistica del Teatro Giacosa di Ivrea. Collabora con numerosi teatri, tra cui lo Stabile di Torino e il Piccolo di Milano. Ha ricevuto tanti premi. È tra i fondatori del Laboratorio Teatro Settimo, e tra le più famose interpreti di questo tipo così particolare di teatro, grazie al quale è riuscita a indagare iI tema del lavoro, il punto di vista femminile sulla contemporaneità, l’attenzione per le nuove generazioni, fra gli elementi fondanti della sua scrittura. La sua opera più celebre è forse quella dedicata alla famiglia Olivetti, che ha narrato attraverso la voce delle donne. Il punto di vista è il centro della sua ricerca, che diventa centrale anche nella drammaturgia e nella messa in scena. Che cosa hanno in comune teatro e pizza? Abbiamo deciso di scoprirlo durante una chiacchierata tra i tavoli della pizzeria Wema di Torino, tra un ricordo e l’altro, culinario o artistico, dell’attrice insieme ad Anna Prandoni e Samanta Cornaviera. 

Quello che in realtà salta subito all’occhio è la frase con cui Laura Curino dà il benvenuto nel suo sito web, nel suo spazio digitale: «Restare qui, tranquilla e assorta, per tanto tanto tempo, finché non giungano gli amici, e allora mostrare loro il posto, con un gesto familiare…». È una frase presa in prestito da Le affinità elettive di Goethe e in qualche riesce a rappresentare, con un’incredibile forza espressiva, sia il mondo del teatro che quello della pizzeria e della ristorazione in generale. In entrambi i modi si dà il benvenuto agli amici, li si accoglie in uno spazio creato e pensato per far stare i padroni di casa, ma soprattutto le persone che scelgono di trascorrere dei momenti di condivisione insieme. Nel teatro questa sensazione si ha appena il sipario si apre, cala il silenzio e ci si ritrova sospesi in un rapporto esclusivo e inclusivo allo stesso tempo. «Senza il pubblico il teatro non esiste». È vero, così come è un’altra sacrosanta verità che senza i clienti una pizzeria o un ristorante non potrebbero esistere: esisterebbe l’atto del cucinare, certo, che è lo stesso che compiamo più o meno tutti ogni giorno quando dobbiamo nutrirci, ma l’attività imprenditoriale della ristorazione è un’altra cosa. E ci fa anche comprendere meglio quanto spesso possano, in questo senso, commettersi degli errori. A volte ci si ritrova infatti davanti a pizzaioli o chef che perdono di vista questo obiettivo, il cliente e la sua soddisfazione, e percorrono strade egoriferite per il semplice gusto dell’atto creativo. Creatività e sostanza devono andare di pari passo, perché il pubblico è sempre, pronto a giudicare e a decretare successo o fallimento dei singoli progetti. «Quando faccio i miei spettacoli tutto è per me sia insuccesso che successo. Sono però una persona cauta, non mi espongo a un terribile insuccesso, l’ho già fatto da giovane di forzare ed è giusto che l’abbia fatto. Adesso sono più tranquilla»: gli sbagli che danno la direzione, la sfrontatezza dell’età giovanile, il coraggio anche di fare scelte errate. Sono tutte elementi che ritroviamo anche nel settore della pizza: si studia, si sceglie di diventare pizzaioli, si prova a tracciare direzione, a volte anche osando parecchio, per poi però trovare la propria identità, quel percorso che rende distinguibili e unici. Sono queste le storie dei grandi pizzaioli, dei maestri dell’arte bianca che sono stati in grado di lasciare un segno e di illuminare la strada ai più giovani. Avere il coraggio di conoscere sé stessi e di esserne fedeli. Anche quando si tratta di creatività gastronomica. In fondo è un po’ come quando un drammaturgo decide di mettere in piedi una commedia: ha un’idea, sceglie gli ingredienti migliori, tra attori e schemi comunicativi, e li mette insieme per ottenere il miglior prodotto possibile, in grado di accarezzare il suo vezzo artistico e, contemporaneamente, saziare il suo pubblico. I processi in una pizzeria non sono poi così diversi. Si crea un impasto nuovo, si cerca di capire quali ingredienti abbinarci per esaltarlo al meglio e poi si cerca il favore e il gusto dei clienti, in un gioco delle parti che deve essere uno scambio continuo di informazioni. 

Sembrano universi così lontani, e invece ci si ritrova sempre, in più punti di contatto. Il teatro è cultura, è politica, è tessuto sociale. Lo è anche la pizza, il cibo in generale, così portatore di pensiero sociale, di collettività, così espressione della comunità. In Italia, forse, ne siamo più consapevoli, tanto i nostri discorsi ruotino intorno al cibo, ma è una verità assoluta in ogni luogo e in ogni tempo. Lo vediamo anche dalla pizza contemporanea e dalla sua evoluzione storica: il cambiamento, dalle sue origini alla sua dimensione attuale, è sempre stato capace di fotografare antropologicamente la società. Da cibo da strada a proposta gastronomica complessa: è cambiato il nostro modo di mangiare la pizza, così come è cambiato il modo di crearla. È politica, lo è sempre: il teatro o la pizza, poco cambia. 

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Questo articolo fa parte di “A Spicchi”, il progetto di  Petra Molino Quaglia. Qui il link per l’iscrizione alla newsletter mensile, da condividere con gli appassionati della pizza.

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