La fine del sognoIl mondo che conosciamo non c’è più, forse è il caso di prenderne atto

L’Europa deve capire che la democrazia e la sicurezza mondiale non sono né garantite né scontate: bisogna affrontare la realtà della competizione globale con le potenze autoritarie, come Russia e Cina, che vivono ancora nel diciannovesimo secolo

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«Linverno sta arrivando» è il celebre motto degli Stark di Grande Inverno. «Winter is Coming» è anche il titolo del libro (del 2015) con il quale Garry Kasparov, forse il più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi e uno dei più ostinati oppositori di Putin, ha spiegato con chiarezza perché Vladimir Putin e i nemici del mondo libero devono essere fermati. Forse ci siamo. Se ci si guarda intorno, è difficile infatti sfuggire allimpressione che le cose in giro per il mondo siano andate fuori controllo e che ci si debba preparare al peggio.

Mi spiego con un esempio. Il Canada è un paese così tranquillo che lidea di una guerra tra gli Stati Uniti e il Canada è servita da ipotesi inverosimile per «Canadian Bacon», il film satirico di Michael Moore del 1995 con John Candy. Eppure, proprio il Canada negli ultimi tempi si è trovato di fronte ad una serie di dilemmi in materia di politica estera che lo hanno costretto a lottare strenuamente per tenere in equilibrio valori, interessi e identità. È entrato in conflitto con la Cina su tutta una serie di questioni, tra cui larresto del Cfo di Huawei, Meng Wanzhou, accusata di frode bancaria e cospirazione per presunti rapporti commerciali con lIran (Meng è stata successivamente rilasciata; e sono stati rilasciati anche i due cittadini canadesi, detenuti in Cina dopo il fermo di Lady Huawei, tra mille polemiche per quella che è apparsa a tutti come una ritorsione); ha accusato lIndia di aver orchestrato l’assassinio di un attivista separatista sikh fuori da un tempio sul suolo canadese (il governo Modi ha risposto sospendendo i visti dei canadesi); ha inoltre aperto uninchiesta pubblica sulle interferenze di Cina e Russia nelle elezioni federali.

Le placche tettoniche dellordine mondiale hanno messo il turbo e il Canada, come ha scritto Demetri Sevastopulo sul Financial Times, «è un esempio drammatico del problema che molte democrazie di medie dimensioni si trovano ora ad affrontare: come condurre una politica estera coerente con la loro identità politica in un momento in cui i governi autoritari stanno acquistando influenza e il potere e le opportunità economiche si stanno spostando sempre più verso lAsia, e in particolare verso la Cina e l’India».

Del resto, come ha osservato il generale britannico in pensione Sir Richard Barrons, co-presidente di Universal Defense and Security Solutions (Udss), quello in Ucraina non è solo un conflitto regionale ma la rappresentazione brutale e drammatica dei rischi esistenziali con i quali, in ogni parte del mondo, le generazioni attuali e quelle future dovranno fare i conti: «La guerra in Ucraina – ha detto Barrons intervenendo al Lucerne Dialogue – è la spia della contrapposizione strategica che esiste tra noi dellOccidente e la Russia. Non labbiamo scelta. Ma c’è. E vincere è fondamentale tanto per i giovani uomini e le giovani donne che la notte scorsa si sono congelati in una buca profonda tre metri in Ucraina quanto per ciascuno di noi in questa stanza».

Insomma, la terra ha ripreso a tremare. Il sistema internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale è quasi irriconoscibile. La sua trasformazione, si sa, è stata innescata dalla globalizzazione economica – a sua volta favorita dalla rivoluzione tecnologica – contraddistinta da un trasferimento di ricchezza e di potere economico (storicamente senza precedenti, quando a dimensione, velocità e direzione) in corso dall’Ovest all’Est del mondo. Quaranta anni fa, tanto per fare un esempio, una città come Shenzhen non esisteva ancora. Oggi ha più di diciassette milioni di abitanti, più del doppio di New York, la città più popolosa d’America. Molti dei suoi residenti sono nati nella povertà rurale e oggi hanno lo stesso tenore di vita degli abitanti di Brooklyn. In una sola generazione, un villaggio di pescatori è diventato il quarto scalo al mondo. Un porto che movimenta, da solo, più di quanto riescono a fare insieme Los Angeles e Long Beach, i due maggiori porti americani.

Erano in molti a sperare che la Cina, sotto leffetto della sua spettacolare crescita economica, dell’apertura al commercio internazionale e del miglioramento del tenore di vita dei suoi abitanti, si sarebbe gradualmente liberalizzata. L’apertura economica, si diceva, avrebbe inevitabilmente prodotto un’apertura politica, che i leader politici cinesi (o quelli russi) lo volessero o no. Ma non è andata così.

La competizione tra le grandi potenze è tornata. Ed è riemersa la vecchia contesa tra liberalismo e autocrazia, con le grandi potenze mondiali che si allineano in relazione alla natura dei loro regimi. In un libro di sedici anni fa intitolato “The Return of History and the End of Dreams”, Robert Kagan aveva lucidamente previsto quel che sarebbe successo. Perché, spiegava, «il potere cambia le persone e cambia le nazioni. Cambia la percezione che hanno di sé, dei loro interessi, della loro corrispondente posizione nel mondo, di come si aspettano di essere trattate dagli altri. Proprio per questo l’ascesa di grandi potenze nel corso della storia ha così di frequente prodotto tensioni nel sistema internazionale e perfino grandi guerre». È infatti questo nuovo senso di potere – che poggia sulla disponibilità di risorse naturali, sul potere di veto al Consiglio di sicurezza, eccetera – che alimenta il nazionalismo russo risvegliando un profondo risentimento per le presunte umiliazioni del passato. La Russia vuole mantenere il predominio sulle regioni che le stanno a cuore allontanando l’influenza delle altre potenze. È quel che le grandi potenze hanno sempre voluto. E se dovesse farcela, le sue ambizioni – come è sempre accaduto – crescerebbero ulteriormente. Putin non è un attore tra i tanti, è uno spettro del passato.

«La Russia e l’Ue – scriveva profeticamente Kagan – sono vicine geograficamente. Ma dal punto di vista geopolitico vivono in due secoli diversi. Una Ue del ventunesimo secolo, con la sua nobile ambizione di trascendere la politica di potenza e guidare il mondo in un nuovo ordine internazionale basato sulla legge e le istituzioni, ora deve confrontarsi con una Russia che è appunto una potenza tradizionale del diciannovesimo secolo che pratica la vecchia politica di potenza. Entrambe sono forgiate dalla loro storia. Lo spirito postmoderno, «post-nazionale» dell’Unione europea è stato la risposta dell’Europa agli orribili conflitti del ventesimo secolo, quando il nazionalismo e la politica di potenza hanno distrutto per due volte il continente. Le tendenze della politica estera russa sono state modellate dai percepiti fallimenti della «politica post-nazionale» dopo il crollo dell’Unione sovietica. L’incubo dell’Europa sono gli anni Trenta; l’incubo della Russia sono gli anni Novanta. L’Europa vede la risposta ai suoi problemi nel superamento dello stato-nazione e della forza. Per i Russi, la soluzione è quella di ripristinarli». Ma cosa succede – si chiedeva Kagan – quando una entità del ventunesimo secolo come la Ue deve affrontare la sfida di una potenza tradizionale come la Russia? Lo stiamo per scoprire.

Che l’Europa non sia preparata, né istituzionalmente né dal punto di vista del temperamento, a giocare la partita geopolitica della Russia, è un segreto di Pulcinella. Dopo il crollo dell’Unione sovietica, abbiamo scommesso sul nuovo ordine mondiale e sul primato della geo-economia sulla geopolitica (così, pensavamo, l’economia europea avrebbe gareggiato alla pari con Stati Uniti e Cina); abbiamo tagliato le spese militari e rallentato la modernizzazione delle nostre forze armate (ritenendo che fosse sufficiente il soft power), e via di questo passo. E ora che la Russia cerca di restaurare lo status di grande potenza e il predominio su quella che considera la sua tradizionale sfera di influenza (riesumando una categoria della diplomazia imperialista di fine Ottocento), l’Europa si ritrova alle prese con una competizione geopolitica inaspettata e indesiderata.

In aggiunta, l’America, che ha avuto un ruolo centrale nella creazione dell’ordine mondiale in cui viviamo dal 1945, e a cui l’Italia ha preso parte con le altre nazioni europee, oggi non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo contemporaneamente da locomotiva economica e da garante della sicurezza militare.

Certo, grazie al cielo con Joe Biden l’America è tornata, ma non come prima. Per gli Stati Uniti, che sono impegnati nella sfida strategica a lungo termine posta dalla Cina, la priorità è ora quella di rimettere in sesto il Paese, le sue istituzioni e le sue infrastrutture, ricomponendo i «frantumi dell’America» descritti da George Packer nel suo celebre libro. Giustamente, Biden e il suo partito vogliono rendere l’America un po’ più simile all’Europa. Non è un caso che Trump batta e ribatta sulla necessità di «riconsiderare radicalmente lo scopo e la missione della Nato» e nella sua la piattaforma elettorale imputi allestablishment globalista la responsabilità di aver trasformato l’America in un paese del terzo mondo trascinandola in guerre senza fine. È da un pezzo che gli americani vogliono tornare alla «normalità» e che le amministrazioni Usa fanno a gara per rassicurare i loro cittadini che baderanno alla politica interna, occupandosi di politica estera il meno possibile. Quando, circa quindici anni fa, sulla strada tra San Francisco e Carmel, mi sono fermato a mangiare in una tavola calda con la famiglia, il proprietario è uscito dalla cucina per chiederci se è vero che in Italia abbiamo cinque settimane di ferie pagate (c’entra, di nuovo, Micheal Moore e quel suo documentario farlocco sulle meraviglie del welfare europeo: soldi regalati e un sacco di tempo per fare sesso).

La Nato è una alleanza militare formidabile e ci è andata di lusso che per tre quarti di secolo la nostra sicurezza fosse garantita dagli Stati Uniti e pagata dai contribuenti americani, ma è finita. Se vuole avere voce in capitolo in un mondo difficile, l’Europa deve fare la propria parte. Ci costerà dei soldi ma è il meno. Per affrontare le fratture della guerra di aggressione della Russia, lUnione dovrà ripensare la sua geografia, le sue istituzioni, le sue competenze e il suo finanziamento. E la domanda più urgente resta quella che Kagan poneva sedici anni fa: «Would Europe bring a knife to a knife fight?».

«Il solo modo per lUcraina di vincere – ha detto il generale Barrons al KKL di Lucerna – è se ora mobilitiamo la nostra industria e la nostra volontà. Non ditemi che va al di là delle nostre possibilità perché voi rappresentate un’economia da quindici trilioni di euro all’anno. Posso rifornire lesercito ucraino con settantacinque miliardi di euro all’anno per due-tre anni e posso farlo vincere. Il punto non è se sia alla nostra portata. È questione di scelte». E qui viene il difficile.

Mi spiego, di nuovo, con l’aiuto di Kagan. Gli americani avrebbero potuto vivere felici e contenti in un mondo dominato dalla Germania nazista e dal Giappone imperiale? Era questa la domanda che, come racconta lo studioso americano in un libro più recente, «The Ghost at the Feast» (che analizza il tracollo dell’ordine mondiale tra il 1900 e il 1941), stava al cuore del «great debate» in America negli anni Trenta. Per gli anti-interventisti quella prospettiva non era un problema ma per molti altri era un incubo. E dopo Monaco e la Kristallnacht, Roosevelt e un numero crescente di americani, conclusero che «il regime nazista era troppo insaziabilmente aggressivo e inaffidabile per essere incorporato in un ordine europeo stabile e governato dalle regole».

Un giudizio, spiega Kagan, «che aveva più a che fare con l’ordine globale che con la sicurezza nazionale americana. Riguardava il tipo di mondo nel quale gli americani avrebbero voluto vivere». Detto altrimenti, per quanto i loro metodi fossero spiacevoli e «illegali», la Germania, lItalia e il Giappone «stavano cercando di liberarsi dalle costrizioni di un ordine mondiale anglo-americano, nello stabilire il quale essi non avevano avuto nessun ruolo, che non serviva i loro interessi per come essi li percepivano, ma che, al contrario, era stato creato specificatamente per limitarli». Erano certamente gli aggressori, «ma in quale altro modo, se non con la forza, avrebbero potuto cambiare l’ordine mondiale a loro vantaggio?» E con la forza soccombettero, la Germania per la seconda volta nel corso del secolo. Perché gli americani decisero, per la seconda volta, che la guerra era preferibile al cambiamento dell’equilibrio di potenza a vantaggio delle dittature.

Gli americani ritenevano ovviamente di essere nel giusto. E qui veniamo al punto che ci riguarda da vicino: «Gli americani erano nel giusto solo se si pensa che il liberalismo sia giusto e che gli avversari del liberalismo abbiamo torto. Senza questo giudizio morale, l’ordine mondiale che gli americani volevano sostenere, e i mezzi che usarono per sostenerlo, non erano più giusti di ogni altro ordine mondiale stabilito e difeso con la forza. Era semplicemente migliore per gli americani e per quanti condividevano la loro fede liberale».

Il problema, in Europa, è che siamo arrivati a considerare la pace, la sicurezza, la democrazia, come cose naturali, scontate: la conseguenza, ovvia, dell’evoluzione del genere umano. E abbiamo dimenticato quanto sia costata l’affermazione dell’ordine liberale internazionale, i mali che ci ha risparmiato e che quell’ordine, che ha garantito un periodo di pace, prosperità e libertà senza precedenti, non è stato un fenomeno naturale.

Inoltre, come allora molti americani, pensiamo che l’esercizio del potere per qualsiasi obiettivo diverso dall’auto-difesa sia di per sé immorale e preferiamo perciò delegare a loro le nostre responsabilità. Non vogliamo accettare le conseguenze delle nostre azioni egemoniche e non vogliamo prendere atto del fatto che per preservare la pace e l’ordine liberale c’è bisogno – come hanno dovuto riconoscere gli americani – di un formidabile e costante esercizio del potere. Con tutto quel che la responsabilità di dare una legge al mondo comporta (budget militare, soldati, eccetera, senza, per giunta, lasciarsi andare alle tentazioni dell’imperialismo).

Soffermandosi sui pericoli del ritiro americano dal mondo e sul prezzo della responsabilità internazionale, Kagan ricorda infatti che nel 1919 e negli anni successivi, gli americani «ebbero lopportunità di realizzare qualcosa che si avvicinava all’ideale di un ordine mondiale liberale autoregolamentato e largamente democratico». Ma, per farlo, avrebbero dovuto «riconoscere che i loro interessi si erano ampliati in conseguenza del loro crescente potere, che il loro destino era in definitiva legato al destino di altre parti chiave del mondo» e che «non avrebbero tollerato uno spostamento degli equilibri di potere a favore di una dittatura globale»Invece, continuarono a pensare che ciò che accadeva nel mondo non li riguardasse. Il risultato fu che finirono di nuovo in guerra, in circostanze di gran lunga peggiori.

La cosa ci tocca da vicino. In fondo, di quel che succede in Russia o in Cina alla maggior parte degli europei non importa nulla. Il guaio è che a loro invece importa di noi e delle nostre società; e stanno cercando di manipolare il dibattito politico nei nostri paesi e di gareggiare con noi (e con le nostre idee) dappertutto (in Africa, in Asia, in America Latina) e in molti ambiti diversi. Ma è arrivato il momento di affrontare il fatto che stiamo prendendo parte alla competizione anche se non vorremo farlo, che il mondo si sta riallineando e che sono in gioco gli equilibri e la stessa sopravvivenza della Ue e della Nato, così come le conosciamo.

Come allora gli americani, siamo ancora aggrappati a una vecchia immagine «insulare» dell’Europa, non abbiamo «il linguaggio, la teoria e la giustificazione» per il ruolo che, volenti o nolenti, dovremo svolgere nel mondo. E, come per gli americani, la cosa rischia di diventare «una grande e spesso debilitante fonte di confusione, equivoci e recriminazioni». Ma anche per noi è tempo di prendere atto che mantenere la pace comporta un costante coinvolgimento e un consistente esercizio del potere (americano e anche europeo). E per far questo, oltre a ridurre la nostra distanza dal mondo, dovremo perdere il vizio di guardare ai problemi del pianeta attraverso le lenti delle nostre dispute interne. Non sarà facile.

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