«Ci credete? Questo qui sostiene che il cambiamento climatico sia la più grande minaccia per il nostro Paese. A me il riscaldamento globale va bene. Sapevo che avrebbe fatto molto caldo qui oggi, e mi va bene». Sono parole pronunciate qualche settimana fa da Donald Trump a Chesapeake, in Virginia, durante il giugno più caldo da quando esistono dati disponibili a livello mondiale. «Questo qui» («this guy») è il presidente Joe Biden.
Lo scherzo di Trump sull’innalzamento delle temperature, che tutto sommato «it’s fine», riflette la percezione di una parte dei suoi elettori, ma si scontra con un fenomeno che negli Stati Uniti sta crescendo anno dopo anno: quello dei migranti climatici. Anche se siamo abituati ad associarlo a Paesi meno sviluppati, questo problema infatti è sempre più diffuso anche in zone economicamente avanzate e dal clima temperato. Ad accendere i riflettori sul caso degli Stati Uniti è stato un report pubblicato alla fine del 2023 dalla First street foundation, che indaga gli effetti del cambiamento climatico sul rischio finanziario e sugli investimenti immobiliari.
Secondo il report, 2,5 milioni di statunitensi si sono spostati per sottrarsi agli effetti del cambiamento climatico. E si prevede che nei prossimi dieci anni più di cinquanta milioni di statunitensi saranno costretti a fare lo stesso. Gli Stati Uniti, in questo momento, contano circa trecentotrentasei milioni di abitanti.
Se cade il mondo mi sposto un po’ più in là
Per capire l’urgenza di questi spostamenti basta dare un’occhiata ai dati sulla frequenza dei disastri naturali negli Stati Uniti. Secondo la National oceanic and atmospheric administration (Noaa), nel Paese i cosiddetti Billion dollar climate disasters (disastri naturali legati alle condizioni climatiche con danni da oltre un miliardo di dollari) sono aumentati notevolmente, passando da una media di tre all’anno nel 1980 a venticinque nel 2023.
«Monitorare questi fenomeni – si legge nel report della First street foundation – rende evidente come la loro crescita sia stata costante ed esponenziale, con sempre più danni che avvengono in luoghi in cui infrastrutture e persone possono essere colpite». Questa situazione nasce dalla combinazione di due fattori: in primo luogo, la maggior occorrenza di eventi meteo estremi determinata proprio dal cambiamento climatico; in secondo luogo, la crescita della popolazione e del consumo di suolo in aree a rischio, come le coste.
Ma gli studi Noaa e l’analisi della First street foundation permettono di andare più in profondità, tratteggiando uno scenario piuttosto complesso. Innanzitutto, sappiamo che, come si legge nel report, al primo posto per incremento tra i Billion dollar troviamo per ora «le forti tempeste e le forti piogge, che sono addirittura quadruplicate, seguite dai cicloni tropicali». Questo dato trova corrispondenza nel comportamento dei cittadini statunitensi, che per il momento sembrano disposti a spostarsi perlopiù di fronte ad allagamenti e inondazioni, mentre i rischi legati al caldo estremo non fanno altrettanta presa sulla popolazione.
A livello generale, bisogna anche ricordare che negli Stati Uniti l’attitudine a trasferirsi è calata in modo considerevole negli ultimi anni: nel 1950 il cosiddetto “Migration rate” annuale era del venti per cento, mentre oggi sta toccando un minimo storico che si attesta intorno all’otto per cento, e la distanza media degli spostamenti è scesa a circa undici chilometri.
Ciò significa che, rispetto al passato, le persone sono meno propense a spostarsi da una città all’altra (o da uno Stato all’altro) in cerca di condizioni migliori. E anche se anno dopo anno crescono, in proporzione, coloro che “migrano” perché preoccupati per gli effetti del riscaldamento globale o direttamente danneggiati da eventi estremi, persino chi scappa da un clima impazzito cerca casa non troppo lontano dalla zona di partenza.
In altre parole, tante persone stanno lasciando le zone più soggette a inondazioni e alluvioni, percepite come pericoli imminenti per la propria vita, salute o per la proprietà; ma cercano comunque di non allontanarsi eccessivamente dal luogo di lavoro e dalla propria rete sociale, rimanendo quindi nella stessa contea o nella stessa città. In più, nel scegliere dove vivere non prendono ancora in considerazione gli effetti sul lungo periodo di estati più calde e mancanza d’acqua.
Il fascino della Sun Belt
Secondo la First street foundation (e altre organizzazioni statunitensi come ad esempio la fondazione New America con il suo programma Future of land and housing), questo tipo di migrazione su brevi distanze non riuscirà da solo a contenere i danni derivanti dal cambiamento climatico.
I motivi sono diversi. In primo luogo, nei prossimi anni le zone che adesso si trovano vicine ai punti caldi ma sembrano riparate dagli eventi meteo estremi – ad esempio perché più distanti dalla costa – potrebbero non essere più sicure, poiché il numero e la violenza di questi fenomeni continuerà ad aumentare.
Inoltre, lo spostamento spontaneo della popolazione sta già lasciando indietro i gruppi più vulnerabili: famiglie a basso reddito e persone anziane rimangono nelle aree a rischio, dove i prezzi sono più bassi. Si innescherà allora un circolo vizioso: «Con la diminuzione della popolazione, il calo dei valori immobiliari e potenzialmente una forza lavoro più ridotta a causa dell’invecchiamento – scrive la First street foundation – è probabile che anche le entrate fiscali locali diminuiscano. Ciò si tradurrà in minori investimenti per l’istruzione, le infrastrutture e i programmi di assistenza sociale».
Infine, negli Stati Uniti un’altra migrazione – legata alla ricerca di un nuovo posto di lavoro – continua imperterrita, nonostante il “Migration rate” totale del Paese stia scendendo. Si tratta del flusso di persone diretto verso la Sun Belt, ossia gli Stati più meridionali, dalla costa atlantica a quella pacifica. Se si somma questo fattore alla tendenza delle persone a sottovalutare i rischi legati al caldo torrido, alla siccità e agli incendi, sembra di avere in mano la ricetta per un disastro.
«Milioni di americani continuano ogni anno a migrare verso le zone più vulnerabili del paese dal punto di vista climatico, in gran parte nella Sun Belt. Per ora, città come Charlotte, soggetta a inondazioni, Houston, devastata dalle tempeste, oppure Phoenix, che ormai è una fornace, stanno continuando ad andare avanti, anche se sotto la pressione dell’aumento dei costi immobiliari e con infrastrutture instabili. Ma gli afflussi di popolazione in zone sempre più insostenibili dal punto di vista ambientale sono una bomba a orologeria. Quando la bomba esploderà nei prossimi decenni, darà inizio a un esodo di massa caotico e costoso», ha scritto pochi giorni fa su Bloomberg Yuliya Panfil di New America.
Un rompicapo da risolvere
La situazione americana non è un unicum. Il report “Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability” pubblicato nel 2022 dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dell’Onu descrive dinamiche simili in tutto il mondo: secondo l’Ipcc, la maggior parte delle migrazioni legate all’aumento delle temperature e agli eventi meteo estremi sarà su scala nazionale, proprio perché le persone cercheranno di mettersi in salvo spostandosi il meno possibile. Un concetto che scalfisce l’idea di grandi migrazioni dalle zone più calde e sottosviluppate a quelle più fredde ed economicamente avanzate, peraltro molto ripresa nel dibattito pubblico degli ultimi anni.
Saranno quindi anche i singoli Paesi a dover cercare strategie per governare questi flussi nel modo più efficiente. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, una strada possibile per il futuro potrebbe essere quella di provare ad incoraggiare le persone a trasferirsi in zone climaticamente stabili. Si parla per questo di “paradisi climatici”, come ad esempio le città di Duluth, Minnesota, Rochester, New York,
«Abbiamo bisogno di un piano per incoraggiare dei trapianti climatici (“climate transplants”, ndr) in parti del Paese che siano sicure e attraenti a lungo termine – ha dichiarato ancora Panfil di New America – e dobbiamo farlo ora, lavorando anche con le imprese locali». Il tempo in effetti è poco, e un eventuale piano di aiuti del Governo in questa direzione dovrebbe invertire una tendenza molto consolidata. Basti pensare che oggi undici delle quindici città statunitensi che stanno crescendo più rapidamente si trovano in Texas, Florida e Arizona, proprio nelle aree in cui siccità, innalzamento del livello del mare e cicloni si faranno sentire con più forza.