Nel primo racconto di Isole, l’esordio letterario di Nicolás Jaar, una giovane ragazza di nome Wrenn si interroga sul significato del concetto di identità. Al suo popolo è stato implicitamente richiesto di non raggiungere mai nessun altro atollo dell’arcipelago circostante, rimanendo così isolato, nel vero senso del termine, dalle altre realtà per proteggere le proprie cieche convinzioni. Ed è proprio sulle isole e le cieche lotte identitarie degli uomini che si costruisce l’opera di Jaar.
È la prima volta che Jaar parla pubblicamente di Isole, la sua prima antologia narrativa pubblicata da Timeo e che esordisce proprio in Italia dove l’artista ha vissuto dal 2017 al 2021: «Ho iniziato a scrivere parte di questi racconti a Torino attorno al 2018. Mi ci ero trasferito quando volevo smettere con la musica. Avevo lasciato New York, non volevo tornarci; avevo smesso di comporre. Forse per questo ho iniziato a scrivere. Quello che avevo dentro invece di uscire con il suono ha trovato un’altra via. Non avevo intenzione di cambiare carriera o modo di esprimermi, non avevo pianificato nulla. Ho solamente iniziato a scrivere».
L’artista cileno-palestinese, infatti, è conosciuto ai più come elegante compositore elettronico. Nella sua oramai più che decennale carriera (nonostante sia solamente un classe ’90) la cadenza della sua produzione è stata imbattibile: ha esplorato territori sonori del ritmo quanto quelli aleatori e intimi dell’ambient in sei dischi solisti, firmato colonne sonore (come quella di Dheepan, Palma d’oro a Cannes), pubblicato joint album (due con l’americano Dave Harrington a nome Darkside e uno con il musicista pakistano Ali Sethi), prodotto tracce per The Weeknd e FKA Twigs, aperto una casa discografica indipendente (Other People), lanciato un side project (Against All Logic) e progetti speciali come un libro di visual writing nato da una residenza artistica (Network, 2017) e una pièce radiofonica su Telegram (Archivo de Radio Piedras, 2022/23). Scrivere però, come ci tiene a sottolineare, non era nei piani.
«Scrivere un libro non è stata un’idea premeditata. Sono stato nell’industria musicale per dieci anni, dai 18 ai 28, fino a quando ho realizzato che non più era coerente con quello che avevo in mente, con quello che volevo fare. Così mi sono fermato, ho licenziato il mio team e ho iniziato a fare tutto da solo, da indipendente. Visto che non avevo più nessuno che mi dicesse cosa fare avevo più tempo per i miei progetti», racconta Jaar ricordando i primi passi di avvicinamento a Isole, «Mi ero trasferito a Torino per il Po, quel fiume mi aveva colpito molto la prima volta che l’avevo visto. E così in quei giorni andavo vicino al Po a scrivere. Il fatto che questo libro – prima di tutto – sia uscito in Italia e in italiano penso lo si debba, in parte, alla magia di quel fiume».
Isole – «Le isole del libro non sono un concept, sono solo le ambientazioni di diverse storie, qualcosa che ritorna», precisa – si iscrive nella tradizione della narrativa speculativa, là tra Borges e Calvino, ma non può che richiamare al lettore un’altra celebre isola, quella de L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, soprattutto nel racconto Slamatore in cui l’espediente di uno sdoppiamento di identità fantastico ritorna protagonista.
Proprio lo Slamatore, il racconto più lungo del libro, è una sintesi ideale della scrittura di Jaar, un contorcersi di livelli narrativi in cui perdersi tra narrazione in prima e terza persona, pezzi di diario, canzoni, poesia, preghiere, e ancora sogni, visioni e flashback. «Una delle cose che mi dà più gioia nella scrittura è che differenti formati e differenti voci possono entrare dentro una stessa storia. In un racconto puoi aggiungere livelli, inserirci una poesia, un manifesto politico. Ci sono una moltitudine di livelli formali che si possono creare all’interno. Scrivere storie ha influenza anche la mia musica più recente come Archivo de Radio Piedras, una sorta di programma radio che ho condiviso in questi ultimi 3 anni su Telegram, un’opera di tre ore e mezza in cui all’interno della narrazione puoi trovare anche musica e canzoni».
Una narrazione quindi stratificata che trova un suo personale ritmo anche nella scelta di utilizzare, proprio in questi interstizi letterali, la scrittura tipografica: «Mi sono imbattuto in Un coup de dés jamais n’abolira le hasard di Stephane Mallarmé (uno dei primi poemi tipografici della letteratura francese pubblicato per la prima volta nel 1897, ndr) quando ero un ragazzino. Mi colpì profondamente». Una scrittura che, stando alle parole di Jaar, è formata da una moltitudine di voci: «Penso che quando qualcuno sta scrivendo o facendo musica ci sono molto voci che parlano attraverso di lui. Noi non parliamo mai da soli. Parliamo con la voce delle persone che sono venute prima di noi, con quella della natura che ci circonda, con quella dei batteri che ci vivono dentro. Ci sono una moltitudine di voci in noi».
Il concetto di isola funge da ritornello nelle varie storie del libro, che siano esse fisiche e geografiche o concettuali e simboliche, raccontando un senso di continua incomunicabilità tra personaggi e popoli quanto mai contemporaneo. Jaar gioca così a svelare le contraddizioni dei nazionalismi, dell’autarchia, attraverso le domande innocenti dei bambini, la saggezza degli anziani, la poesia degli artisti. Ma possono oggi letteratura e musica diventare uno strumento di resistenza? Jaar – che in Wathrì e la leggendaria operazione Sankère immagina proprio una ribellione che sfrutta la tecnologia musicale come arma – ha le idee chiare: «La guerra contro le persone è stata intrapresa sotto ogni fronte possibile e noi dobbiamo resistere su ogni fronte».
Isole è un’opera prima ambiziosa che vuole portare il lettore in immaginifiche situazioni per mostrare come la sciocca testardaggine dell’umanità si scontri con la semplicità dell’esistenza. Nella sua vivace complessità, nei suoi stratificati anfratti letterali, Jaar ci ricorda una cosa forse semplice, ma più mai fondamentale: l’arte, la musica, la letteratura sono ancora tecnologie di resistenza.