La discussione che si è tenuta al tavolo dell’hackathon siciliano dedicato al mondo del vino e moderata da Adua Villa, esperta comunicatrice enologica, ha coinvolto professionisti under 40 di varia provenienza, ognuno con un’idea precisa ma complementare su come il vino debba essere interpretato, non solo come un prodotto di consumo, ma anche come un mezzo per esprimere e preservare la cultura locale.
Vino: fine o mezzo?
Se il vino debba essere considerato un fine o un mezzo è stato argomento centrale nella riflessione sul ruolo che questo prodotto occupa nella nostra cultura e nelle nostre vite. «C’è stata un’inversione di tendenza nella narrazione che negli ultimi anni ha indirizzato fortemente il racconto sulla vendita. Ma oggi chi pensa di voler produrre vino solo per fatturare ha dei grossi limiti. Il vino è il più antico dei social network, nato per accendere relazioni. Il sistema dovrà ri-allenarsi a far percepire il mezzo e non il fine» afferma Matteo Filippi, enologo e consulente di Uva Sapiens.
Da una parte, infatti, il vino come fine rappresenta il culmine di un processo artigianale, un prodotto da gustare e apprezzare per le sue qualità organolettiche e un’opportunità di business, dall’altra parte come mezzo assume una funzione più sociale e culturale. In questo senso, il vino diventa uno strumento di connessione, una «materia multi didattica», come lo definisce Federica Fina, responsabile marketing e hospiality di Cantine Fina, che lo interpreta come mezzo attraverso il quale possiamo scoprire un territorio, la storia e le sue interpretazioni.
La Comunicazione del vino: limiti ed errori
Perché, nonostante la millenaria tradizione vitivinicola e la straordinaria qualità dei prodotti, molte persone si sentono ancora intimidite dal mondo del vino? La risposta probabilmente risiede nei limiti della comunicazione del settore, che spesso utilizza un linguaggio altisonante e complesso, che tende a respingere piuttosto che ad avvicinare. Termini tecnici, descrizioni elaborate e un approccio quasi reverenziale spesso rendono il vino un prodotto percepito come difficile e inaccessibile.
«Oggi assistiamo a una sovrapposizione errata di linguaggi e di intenti e a un impoverimento dei contenuti. Il settore è sempre più orientato verso una finalizzazione esclusivamente commerciale», sottolinea Adua Villa, sostenendo come il racconto del vino, che dovrebbe suscitare curiosità e interesse genuino nel consumatore, viene spesso sacrificato sull’altare delle strategie di vendita.
Questo approccio «te lo racconto perché te lo vendo» impoverisce il contenuto e allontana il pubblico, rendendo la comunicazione monotona e priva di autenticità. Le piattaforme social come Instagram ne sono un esempio: molte comunicazioni risultano superficiali e uniformi, orientate più all’acquisto che alla creazione di valore culturale e narrativo. La sfida, dunque, è ristabilire un equilibrio, dove la narrazione autentica possa convivere con le esigenze di mercato senza che una prevarichi l’altra.
Il tempo è un ingrediente, anche di racconto
Come fare, dunque, per riaffermare la centralità e il valore del racconto del vino stesso? Non basta più parlare di qualità e tecniche di produzione, è necessario raccontare storie, creare emozioni e costruire un legame personale con il consumatore. Il vino deve tornare a essere un prodotto conviviale, capace di unire le persone e di arricchire le loro esperienze. «Su questo, al ristorante è fondamentale la lettura del cliente» afferma Irene, stagista sommelier nel ristorante stellato Gagini di Palermo. «Spesso i clienti hanno paura nello scegliere il vino, ma allo stesso tempo hanno poca disponibilità all’ascolto. È fondamentale utilizzare poche parole, quelle giuste, per guidarli nella scelta».
Il concetto di tempo è emerso come determinante in questa riflessione. Il vino ci offre un’occasione per riscoprire il piacere della lentezza e della condivisione, ma anche un’opportunità per interpretare il valore-tempo come ingrediente fondamentale per la resa di un ottimo prodotto, che di fatto vive di continue trasformazioni e che individua nella longevità un grande pregio. Il vino richiede tempo per essere prodotto, e una volta aperto, ci regala tempo.
Autoctono, nativo o tradizionale?
Quando si parla di vini autoctoni, nativi o tradizionali, emerge una complessità terminologica che riflette questioni più profonde legate all’identità e all’evoluzione del vigneto. Riscoprire e valorizzare i vitigni autoctoni oggi significa anche rivedere il nostro approccio alla comunicazione.
Cosa significa davvero autoctono, oggi? La certezza di ciò che è autoctono può essere sfuggente. Definire un vitigno come nativo o tradizionale non è semplice. La parola “tradizionale” può evocare rigidità, un’adesione a pratiche che si sono sempre fatte così, senza spazio per l’innovazione.
La tradizione è di per sé un’innovazione che si è consolidata nel tempo e che dovrebbe essere dinamica e soggetta a evoluzione: si costruisce quotidianamente e si adatta a nuovi contesti e sfide.
Less is more: alleggerire, non impoverire
Da un punto di vista produttivo, è essenziale chiedersi: serve davvero un vino in più? La risposta spesso è no. Ogni nuova etichetta dovrebbe offrire una qualità distintiva, che la differenzi nel mare di offerte già presenti sul mercato.
Le aziende del settore vinicolo devono affrontare i prossimi anni con la consapevolezza che il mercato sta attraversando un periodo complicato. In questo contesto è emerso che ciò che può fare la differenza sarà la capacità di rispondere alle nuove esigenze dei consumatori con vini snelli, immediati e comprensibili. Vini che, nella loro evoluzione, riescono ad avere una lettura veloce e a soddisfare i gusti contemporanei senza sacrificare la qualità. Nella comunicazione, questa filosofia si traduce in un racconto di coinvolgimento e una maggiore incisività: eliminare il superfluo, valorizzare la fotografia del territorio che rende unico ogni vino.
La semplicità, se ben gestita, è sempre un potente strumento di comunicazione.