Giorgia Meloni si incatena a destra e Matteo Renzi intende rientrare nel centrosinistra: questi due fatti politici, avvenuti nelle stesse ore come se vi fosse una sceneggiatura già scritta, assestano il sistema politico italiano. Votando contro Ursula von der Leyen, la leader di Fratelli d’Italia ha ribadito la sua naturale collocazione: a destra. Con Roberto Vannacci e non con Antonio Tajani. Aveva costruito uno strumento, i Conservatori, per spostarsi verso il Partito popolare europeo ma non ha avuto la forza d’animo di rompere con la casa madre.
Non si capisce perché il Partito democratico se ne dolga: è un fatto che spazza via ogni ipotesi di trasformismo centrista della presidente del Consiglio e quindi per la sinistra diventa più agevole combatterla. Naturalmente non è positivo in assoluto che Meloni, come ha scritto Christian Rocca, abbia fatto un passo indietro rispetto alla svolta di Fiuggi e che «make Fiamma great again» e però la francesizzazione della destra italiana va presa sul serio e senza perdersi in inutili analisi politologiche: Giorgia Meloni questa è.
Sull’altro fronte, anche in conseguenza dell’aggrumarsi dell’Italia in nero, da qualche tempo era in atto un movimento specularmente centripeto e infatti su Linkiesta del 4 luglio, avendo sentito certe affermazioni di Renzi, avevamo scritto che con un suo spostamento verso il centrosinistra «tramonterebbe definitivamente il progetto di una forza che non sta né di qua né di là».
Dopo la débâcle europea Renzi ha cominciato a guardare a sinistra, cosa che Elly Schlein ha colto al volo. L’intervista del leader di Italia viva al Corriere della Sera conferma la sua volontà di far parte di una «alleanza organica», per combattere Meloni con un ruolo speculare a quello della sinistra di Avs e Giuseppe Conte (secondo la sua «ultima reincarnazione», avrebbe detto Balzac, quello di uomo di sinistra tutto d’un pezzo) e della stessa Schlein.
Nella E-news poi Renzi ha scritto che «il Paese è molto più affezionato al bipolarismo di quanto lo siamo stati noi»: un definitivo de profundis, forse anche esagerato, di tutta l’ideologia terzopolista. Si potrà dire tutto quel che si vuole di questa nuova svolta renziana, ed è già è partito il cannoneggiamento politico e umorale di Carlo Calenda, ben contento di essere il solo a non stare con nessuno, e il malcontento di militanti renziani che si sentono traditi.
Vedremo se Renzi riuscirà nella sua operazione – alla assemblea nazionale del 28 settembre Luigi Marattin, che chiede il congresso, non sarà d’accordo – e soprattutto come concretamente si realizzerà questo piccolo ma significativo allargamento del centrosinistra. Significativo politicamente; e forse anche elettoralmente, in quei collegi uninominali dove pochi voti possono fare la differenza.
Conte ha preso male la scelta renziana («La politica è una cosa seria» ha detto chi guidò due governi di segno opposto senza battere ciglio), mentre il Pd per lo più tace: chi detesta Renzi, tipo Bersani e compagni, morderà il freno. Gianni Cuperlo ci ha detto invece di «aver apprezzato i toni dell’intervista di Renzi». Schlein sarà la garante dell’operazione, è lei ad avere le chiavi della coalizione.
Le incognite sono diverse ma non si può negare che la cosa, per quanto piccolo sia il consenso di Italia viva, va a rafforzare questo strano bipolarismo italiano. Che oggi torna ad avere due leader concorrenti per la poltrona di palazzo Chigi, Giorgia Meloni ed Elly Schlein, insignita anche da Renzi, che contraccambia la «caduta dei veti» venuta dalla leader dem: «Io dico subito che per me il candidato premier deve essere il leader o la leader di partito che prende più voti nella coalizione».
A questo punto Giorgia deve fare i conti con chi è più «fascio» di lei (la definizione è di Andrea Orlando), cioè Matteo Salvini, oltre che cercare di governare il Paese; mentre Elly dovrà prodigarsi per tenere insieme, per fare un esempio, putiniani e amici di Kyjiv. Però, piano piano, le due squadre si stanno formando. Lo strano bipolarismo italiano è quasi pronto.