Il diritto alla puttanataL’eroico tweet di Burioni e la libertà di pensarla come la penso io

L’unica rivoluzione di questo secolo è quella di far sentire tutti legittimati a chiedere la testa di chiunque, specialmente di chi non conta niente. Tutti ritengono gravissime e sanzionabili le ingiurie (percepite) provenienti dagli altri, e blande quelle provenienti da loro stessi

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Sono andata a cercare nei miei messaggi quand’è l’ultima volta che ho usato una delle frasi che più m’è capitato di usare nell’ultimo anno, quella che nella prima metà dice «Della libertà d’espressione non frega niente a nessuno». Era circa un mese fa, in una discussione su una richiesta di risarcimento d’un ministro nei confronti d’un giornale.

Il ministro era (è) Adolfo Urso, la richiesta di risarcimento era (è) nei confronti del Foglio, per averlo chiamato «Urss» (il Foglio deve aver preso come collaboratori alcuni di quelli la cui idea di satira è storpiare i nomi: Marco Travaglio, Emilio Fede, quella scuola letteraria lì).

La richiesta era (è?) di cinquecentomila euro, e nella discussione che ho ritrovato nei messaggi c’ero io che trasecolavo perché la risposta non era stata «ma il suo avvocato le ha viste le tabelle dei risarcimenti per diffamazione dei tribunali italiani? Pensa d’essere Hulk Hogan con Gawker? Ha un’idea anche vaga del funzionamento della giustizia nel paese che governa, o ha imparato tutto dagli sceneggiati ambientati nei tribunali americani?».

Il mio interlocutore, invece, argomentava che, se sei quella destra che negli ultimi anni ha difeso dalla cancel culture la libertà d’espressione, poi non puoi fare causa per un nomignolo da spirito di patata, dai. Ed è lì che spiegavo ciò che troppo spesso mi tocca spiegare: nessuno difende la libertà d’espressione, tutti difendono la parte loro.

Quelli che s’indignano se qualcuno vuole che tu venga arrestato o almeno multato o almeno licenziato perché non usi i loro pronomi prediletti, quelli lì non lo fanno in nome della libertà d’espressione. Come faccio a saperlo? Perché sono gli stessi che poi sono a favore del fatto che tu venga arrestato o almeno multato o almeno licenziato perché mi hai dato della terf.

Nessuno dice «Dite un po’ il cazzo che vi pare, e se mi offendo è un problema mio», che è l’unica linea di difesa possibile e sensata della libertà d’espressione. Tutti ritengono gravissime e sanzionabili le ingiurie (percepite) provenienti dagli altri, e blande e figlie della libertà d’espressione quelle provenienti da loro stessi.

Negli stessi giorni di quello scambio di messaggi, ho salvato un eroico tweet di Roberto Burioni. Si parlava d’un docente universitario torinese che si augurava che l’Ucraina uscisse dagli europei per averne «ventidue in più da mandare al macello». Il tweet di Burioni faceva così: «Però questo magari insegna come fare ponti ed è bravissimo a fare ponti e a insegnare come fare ponti. La base della democrazia è ammettere che uno può amare Putin ed essere però un bravo professore».

È un concetto elementare eppure difficilissimo da far passare, giacché coloro che si piccano di difendere la libertà d’espressione sono gente che ci tiene (comprensibilmente) tantissimo alla libertà di pensarla come la penso io. La difesa della libertà d’espressione è perlopiù una difesa delle espressioni e delle opinioni che ci piacciono, con cui siamo d’accordo.

Il tweet di Burioni era all’interno di una discussione con Assia Neumann, la quale a quel punto gli rispondeva piccata: «Quindi la scuola è fare ponti? Imparare le tabelline?». È a quel punto che mi sono conquistata col silenzio il Nobel per la pace – che incomprensibilmente non m’è stato ancora consegnato – evitando di rispondere «Magari imparassero le tabelline, quei ciucci dei vostri figli che escono da scuola ancora più ciucci di quando ci sono entrati» (adesso che l’ho scritto qui, mi revocheranno il Nobel, e Assia chiederà io sia processata per direttissima).

Ci ho ripensato in questi giorni impazziti in cui si fa la storia e si mostra quanto ci teniamo alla tutela delle opinioni discordanti dalla nostra. In questi giorni impazziti di polvere e di gloria, la militanza si chiama attivismo e si fa coi cancelletti, e quindi ha cominciato un account di Twitter dal nobile nome di StopAntisemitism (poco più di trecentomila follower).

La sua meno nobile intenzione era far licenziare un porocristo di steward, e poi una poracrista di hostess, della Delta, che servivano da bere a bordo con, ohibò, una spilletta della Palestina sulla divisa. Cosa potrà mai andar storto, se l’idea di militanza per un ideale si esplica con la richiesta di licenziamento dei camerieri di bordo che hanno la spilletta dell’ideale avversario.

(Bisognerebbe anche discutere dell’infantilizzazione per cui ora gli adulti esprimono le loro idee a mezzo spillette, come noialtri quando avevamo quindici anni e andavano gli zainetti Invicta, zainetti che peraltro mi dicono stiano tornando di moda: doveva essere questo, quel che intendeva quel filosofo parlando di corsi e ricorsi).

Ci ho ripensato perché un altro account spesso interessante – uno di quelli che vorrebbero la galera per chi usa l’epiteto «terf» – nel mostrare le derive della patologia di massa chiamata «identità di genere», un account chiamato Libs of TikTok (tre milioni e duecentomila follower), ha anch’esso iniziato a chiedere licenziamenti. Di gente che, sui propri privati social, si era rammaricata perché l’aspirante assassino di Trump aveva sbagliato mira.

Ora, capiamoci: è colpa dei giornali e della loro pigrizia. Se non avessero passato gli ultimi anni a considerare notiziabile qualunque Vongola75, a rilanciarla, a trattarla come non fosse una che diceva delle cose al bar ma come una il cui comunicato stampa andava pubblicato, non saremmo arrivati qui: a trattare una cassiera di Home Depot che dice una cosa sul suo Facebook visto dalle sue cugine come una che va messa alla gogna per aver detto una stronzata.

Quando mi è comparsa la cassiera di Home Depot che veniva svergognata da Libs of TikTok (e la pronta risposta della catena di negozi di casalinghi che rassicurava d’averla già licenziata: in questi giorni spaventosamente impazziti in cui se dici una stronzata devi pagarla non sapendo più come fare la spesa o pagare l’affitto), ho pensato al MeToo, il cui portato di disastri un giorno qualcuno dovrà studiare.

La rivoluzione che questo secolo s’è potuto permettere non ha risolto nessuno dei problemi che avrebbe dovuto sanare, ma in compenso ha creato un meccanismo di rivalsa che non è servito a responsabilizzare la gente in posizioni di potere, ma a far sentire tutti legittimati a chiedere la testa di chiunque, specialmente di chi non conta niente. Hai ottenuto la testa d’una cassiera che guadagnava meno di te: bravone, coraggioso, giustiziere, vieni che ti diamo una medaglia.

Mentre riflettevo su queste cose, Libs of TikTok ha chiesto la testa d’una prof di liceo che ha commentato un post sull’attentato, un post con cinque like di una sua non so se parente o amica, con la frase «Avrei voluto che avesse una mira migliore». Ero lì che pensavo che, certo, bisogna essere fesse per fare battutacce su un social con le impostazioni di privacy aperte e non sapere che qualcuno cercherà di usarlo contro di te, ma forse se sei un’insegnante in Oklahoma non pensi di dover fare la stessa attenzione d’un giornalista o d’un cantante.

Ma, nello stesso minuto, pensavo anche che bisogna essere ben ubriachi a chiedere il licenziamento di qualcuno per una puttanata scritta su un social. Certo, è un’insegnante, ma io mi preoccuperei di più se non sapesse le tabelline (o se non sapesse farle imparare agli allievi).

Poi mi è apparsa, gloriosamente ritwittata da Libs of TikTok, la rassicurazione del sovrintendente alle scuole dell’Oklahoma: alla tizia colpevole di commento imbecille su Facebook è stata revocata l’abilitazione all’insegnamento.

I codici penali di tutto il mondo prevedono una proporzione della pena. Hai detto una stronzata in un posto in cui qualcuno poteva farne una foto e fare la spia al tuo capo, e la pena è che non potrai più guadagnarti da vivere: non pare commisurata. Ma nessuno può obiettare, giacché i giustizieri della rete decidono da soli i loro codici, non si devono attenere al codice penale condiviso dalla società in cui vivono. Diceva un certo Truman Capote che il problema di muoverti al di fuori della legge è che non benefici più della protezione della legge. Il problema, o l’opportunità.

Il mio messaggio di metà giugno aveva una seconda parte, che pure mi è accaduto di dire assai spesso di recente. «Della libertà d’espressione non frega niente a nessuno, neppure a me che pure ci ho scritto un libro e centinaia di articoli». Era vero, perché non c’è come la frequentazione quotidiana dei social – e delle loro opinioni imbecilli, inattrezzate, né informate né spiritose – niente come vedere migliaia di opinioni imbecilli ogni giorno, per farti venir voglia di un sistema che sorvegli e punisca.

Ma era anche iperbolico, perché niente mi spaventa più della revoca del diritto a guadagnarsi da vivere ottenuta a mezzo spiritosaggine imbecille. Niente mi spaventa di più dell’insegnante dell’Oklahoma che si sveglia senza stipendi presenti e futuri perché ha lasciato scritta una puttanata sotto a un post della cognata. Secondo me, a pensarci, trema un po’ anche Assia.

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