Ogni anno, il pettegolezzo migliore dell’anno arriva mentre sono su questo scoglio. L’unico scoglio sul quale prenda il telefono nel mio posto preferito al mondo. L’anno scorso, pur di sapere ogni dettaglio, mi ero bruciata: il pettegolezzo era arrivato a mezzogiorno d’una fine primavera ingannevolmente fresca.
Quest’anno mi sono organizzata scientificamente (cioè: mi sono portata una crema solare), e quindi non sono impreparata. Accolgo il pettegolezzo e raggiungo l’insalata di pesche. Mentre la mangio, scopro che il New York Times ha prodotto un documentario su Louis CK.
Sui giornali americani ci sono molte recensioni, ma nessuna dice dove lo si possa vedere. È una cosa che mi fa ammattire: nell’epoca in cui leggi una recensione di qualcosa e non ha più senso pensare «evidentemente sta uscendo al cinema», in questa frammentazione da un milione di piattaforme, nessuno più si degna d’indicare, nelle recensioni, dove diamine vedere le robe di cui ti hanno appena parlato.
Scopro che si può comprare su diverse piattaforme americane. Sono pronta a farlo, e perciò sfodero la mia carta di credito. La piattaforma mi fa procedere finché le va bene la geolocalizzazione del mio computer, ma quando vede che la mia carta di credito è italiana respinge la richiesta.
Quindi se fossi una turista con carta italiana che sta passando l’estate in un qualsivoglia territorio statunitense non potrei vedere un film? Eppure nei cinema americani mi hanno sempre venduto i biglietti con carta italiana: perché in sala sì e in albergo no? E soprattutto, che senso ha che io possa comprare una cosa sull’Appletv+ americano e non su quello italiano? A che servono le piattaforme mondiali se non a far uscire le cose in contemporanea in tutto il mondo?
Ah, ma su questa gravissima violazione dei miei diritti di spettatrice scriverò un vibrante editoriale. Dopo, però, perché ora sono quasi le nove, e alle nove ho promesso di chiamare M. e raccontargli il pettegolezzo, quello è commerciante vendicativo e se non gli dico tutto subito mi tiene in ostaggio le prossime cose che viene a sapere. Anzi, fammi tornare sullo scoglio.
Alle nove meno un minuto, arriva un messaggio. Apparentemente il mittente è la mia banca. «Gentile Cliente, per motivi di sicurezza la carta *** è stata bloccata. Contatti presto la Sua Filiale o il numero verde». Spero sia spam, perché non voglio pensare d’aver affidato i miei soldi a una banca che fa questo bislacco uso delle maiuscole.
Chiamo. Mi fanno inserire tutti i numeretti, e dopo un po’ risponde una signorina gentile. Sì, la carta è stata bloccata da un ufficio interno, io da qui non posso vedere perché, ma le passo l’ufficio, resti in linea.
Capirai, penso: l’avranno bloccata perché ho provato a usarla su una piattaforma che voleva carte americane. Ricordo ancora l’incubo della volta in cui mi bloccarono una carta di credito mentre ero a New York – un posto dove senza carte di credito non puoi neanche attraversare la strada – perché gli era parso sospetto un acquisto da Barneys. Non ricordo che anno fosse, ma ricordo che erano gli anni in cui le telefonate internazionali costavano un rene, e io quel rene lo spesi ululando «È come se me la bloccaste perché l’ho usata alla Rinascente». Non ricordo che anno fosse, ma ricordo ancora la stanza d’albergo in cui ululavo al telefono cercando di farmela riattivare: era un albergo bellissimo, non ci sono mai più tornata per autodiagnosticato disturbo post-traumatico.
L’ufficio che la signorina gentile dovrebbe passarmi non è un ufficio: è un risponditore automatico. Di quelli che ti fanno capire che l’intelligenza artificiale è stupida come i più stupidi degli umani. Di quelli che ti chiedono di spingere dei numeretti e poi ne recepiscono due sì e uno no e quindi ti dicono che hai sbagliato a digitare. Di quelli che ti dicono di dire «sì» o «no», e non capiscono neanche se hai la mia dizione impeccabile, figuriamoci quando hanno al telefono l’italiano dialettale medio. Di quelli che servono alle aziende per risparmiare i due spicci dello stipendio del centralinista che screma le chiamate.
Ora. Io capisco se al bar la mattina c’è la coda, perché chi mi schiuma il cappuccino deve anche farmi pagare, altrimenti se gli escono due stipendi il proprietario del bar non rientra dei costi – non è vero, i bar sono pienissimi di clienti, è che i proprietari sono avidi, ma possiamo far finta di non saperlo. Ma vogliamo dire che i banchieri devono risparmiare? Che lo stipendio d’un centralinista eroderebbe i loro sudati guadagni? Essù.
Il disco automatico mi chiede di togliere il vivavoce e pigiare i numeri della carta. Il tempo di togliere il vivavoce e mi dice che non ho scelto alcuna opzione, addio. Sto per dare di matto, ma non scordo mai la prima regola: quando ti dice culo, facci caso. Per fortuna questa cosa mi è capitata mentre non devo di gran corsa pagare qualcosa, posso permettermi di stare con la carta disattivata per due minuti, due ore, due giorni: lo scoglio è prepagato. Richiamo.
Mi ripassano l’ufficio, che anche stavolta non è un ufficio ma un risponditore automatico, ma io sono preparata e velocissima a comporre i numeri della carta. Questa carta non è stata emessa da noi, ma facciamo un altro tentativo. Eh? Rispingo i numeretti, i numeretti mi respingono (sono ridotta ai giochi di parola, se non è trauma certificato questo). Questa carta non è stata emessa da noi, addio.
Ricordati che poteva andarti peggio, ricordati che sei sullo scoglio e non ti serve valuta ma solo protezione solare, e sbrigati che M. aspetta il pettegolezzo dell’anno sennò poi quando ne ha uno lui non ti dice niente. Richiamo. Terza volta, terza signorina gentilissima.
Capisce che continuerò cocciutamente a chiamare tutto il giorno e quindi risolve radicalmente il problema: mi dà il numero diretto del misterioso ufficio che ha emesso la mia carta. È un numero verde. Sta per aggiungere qualcosa. Cade la linea. Bestemmio forte. I pesci si spaventano.
Chiamo il numero verde. Un disco mi dice che il numero verde non è raggiungibile dai cellulari. Bestemmio ancora più forte. Tra un po’ viene a galla la cena. Squilla il telefono. Non è il numero di M.
È la terza signorina gentile, mi ha richiamato perché era caduta la linea. Signorina, io le voglio bene, tutto il bene che si può volere a una cristiana beneducata rispetto a un disco automatico scemo. Mi dice che se non sto chiamando da un fisso devo fare un altro numero, perché le banche oltre che sui centralinisti risparmiano sullo scatto alla risposta e mica vogliono pagare gli addebiti dal tuo cellulare: pensano sia il 2004. Questo non lo dice lei, lo penso io mentre lei mi detta il numero, che subito dopo aver riattaccato compongo.
Dopo essere stata filtrata dal disco – con cui sto quasi per fare amicizia, avendo imparato come aggirare la sua stupidità artificiale e con che lentezza spingere i numeretti perché non siano troppo veloci per essere recepiti né così distanziati da farmi dare per dispersa – riesco infine a farmi rispondere da una persona.
Le spiego che la mia carta è stata bloccata. Mi chiede una serie di dati per accertarsi che io sia proprio io, il che mi sembra giusto: si tratta pur sempre di carte di credito, mi sembra più sensato accertarsi della mia identità di quanto mi appaiano queste procedure in altre circostanze.
Solo che questa procedura ha qualcosa in comune e qualcosa di diverso, rispetto alle volte in cui verificano inutilmente chi io sia (Apple, parlo con te, che ogni volta che devo comprare un caricabatterie dal sito vuoi il nome del mio primo animale domestico, e io non ricordo che nome mi fossi inventata la prima volta e vorrei sapere perché non ti fai bastare la carta di credito e l’indirizzo).
I dati che mi chiede la quarta signorina – la data e il luogo di nascita, il codice fiscale – sono dati alla portata di chiunque abbia Google. Possibile che l’Italia consideri, nel 2024, il conoscere il mio codice fiscale un segno che io sono davvero io, e non una che ha cercato su Google “Guia Soncini” e si è procurata quei due dati anagrafici che bastano a ricostruirne il codice fiscale? Possibile che, nel 2024 e nel paese in cui quando vai a fare le analisi del sangue ti chiamano in codice «per la privacy», nessuno abbia ancora pensato che serve per i cittadini un codice identificativo che non si possa ottenere in due secondi da comodi software gratuiti disponibili on line?
Comunque, io per fortuna ero io, lei mi dice che la carta è stata bloccata causa tentativi di usarla su YouTube – certo, ha presente Louis CK? – e che se riconosco quei tentativi come miei me la sblocca. Ma, per sbloccarla, vuole il numero della carta d’identità. Glielo leggo, incespicando forse perché ho il sole negli occhi o forse per il contagio di stupidità artificiale degli ultimi quarti d’ora. L’intelligenza umana mi mette in attesa.
Dopo quattro minuti di musichetta torna, e mi chiede di attendere ancora. So che io sono io, so che quella carta d’identità è la mia, e pure la carta di credito bloccata è proprio mia, addebitata sul conto mio, su cui ci sono i soldi miei: e allora cos’è quest’inquietudine che pervade l’attesa, verrà forse da sette generazioni di avi truffatori?
Altri quattro minuti. «Scusi, devo chiederle di attendere ancora, abbiamo le macchine bloccate». Nei film, è un classico modo di tenerti lì mentre le volanti arrivano fuori dalla tua porta pronte ad arrestarti. Ma alla fine torna un’ultima volta, mi dice che le macchine hanno riconosciuto il numero del mio documento, e ora mi riattiva la carta di credito.
La stupidità artificiale è stata sconfitta dall’umana tigna, ma intanto sono le nove e quarantuno minuti. M. non mi risponde più al telefono. Se io fossi stata una con un lavoro, con delle responsabilità, con degli impegni, come avrei giustificato questi quarantuno minuti in un giorno feriale a pigiare numeretti? Cos’avrei detto al mio capufficio: di prendersela con la tirchieria dei banchieri che non assumono centraliniste?
Ma, soprattutto, ora che è passata l’ora in cui M. era libero, a chi racconto il pettegolezzo dell’anno? Come rientro della crema solare in cui ho appositamente investito, con quel che costa la protezione 50?