Nelle mie memorie in diciassette volumi, l’autobiografia che il mondo sta aspettando, ci sarà una frase ricorrente, che è il mio adattamento delle istanze di quelle tizie, in genere appassionate di yoga, che raccomandano di, quando sei felice, farci caso.
La felicità è una categoria per imbecilli e per adolescenti, quindi mi sono permessa di portare il consiglio a me stessa su un piano più tangibile: quando ti dice culo, facci caso. Piove e non devi uscire? Ti ha detto culo, facci caso. Ti rovesci il cappuccino su una maglietta che verrà facilmente pulita in lavatrice, e non su un golfino per pagare il quale hai fatto un mutuo? Ti ha detto culo, facci caso.
Il più frequente dei miei «quando ti dice culo, facci caso» ha a che vedere coi treni, che potremmo definire un disastro italiano se non sapessimo che altrove sono messi assai peggio (per prezzi, per affidabilità, a volte per entrambe le variabili), e che è evidentemente impossibile ovunque avere un servizio ferroviario soddisfacente nell’epoca in cui vogliamo il lusso a tariffe abbordabili, in cui detestiamo il turismo di massa pur facendo parte delle masse turistiche, in cui se la classe dirigente è fatta di imbecilli immaginiamoci cosa possa essere la clientela media.
Ogni volta che qualcuno mi dice d’essere su un Roma-Milano con due ore di ritardo, io penso che culo che ho a non dovermi spostare su quella linea quel giorno. Ogni volta che arrivo in stazione e sul display vedo una sleppa di ritardi, e sono su una direttrice che non è quella su cui mi muoverò io, io faccio caso al fatto che mi ha detto culo.
Lo so che voi pensate mi lamenti moltissimo, perché venite qui a leggere i miei capricci sei volte a settimana e ne uscite pensando eh ma insomma a questa qui non va mai bene niente, ma vi assicuro che le lagne che leggete sono una frazione di quelle che potrei sciorinare, vivendo in un mondo in cui nessuno sa più lavorare (un tema su cui toccherà tornare prossimamente) e insomma le cose funzionano come funzionano: male.
È quindi solo una volta ogni tanto che mi lamento, per esempio, del disastro di dover prendere una coincidenza tra un treno normale e un Milano-Roma alla stazione di Bologna, giusto ieri un’amica mi ha notificato le sue bestemmie tentando di andare in Romagna e trovandosi profuga tra i sotterranei dell’alta velocità e i binari normali, ma io pubblicamente muta (e sempre pensando: mi ha detto culo, io non ho perso nessuna coincidenza).
E non mi sono lamentata pubblicamente di quella mattina d’inverno in cui sono arrivata alla sala d’attesa dei Frecciarossa a Milano, ed ero affamatissima e sapevo che non avrei mangiato in treno perché la micragnosa multinazionale che m’aveva fatto il biglietto mi aveva preso la business, e in business (vagoni per i quali sui biglietti scrivono «prima», ma anche un bambino di otto anni sa che sono una seconda classe) non ti danno i tramezzini di Cracco.
Per fortuna, però, pensavo pregustando soddisfazione, da qualche mese nella sala d’attesa Frecciarossa è tornato il cibo, e infatti arrivo alle undici e mezza e c’è la vetrinetta piena di dadini di tramezzini di Cracco (mettono il cibo in sala d’attesa ma dietro un vetro per evitare che noi micragnosi ci avventiamo divorando tutto subito, e lo mettono a dadini, per evitare di regalarci un intero tramezzino: è una guerra tra poveri, non si capisce se alla fine siano più micragnosi i viaggiatori o Trenitalia).
Dietro la vetrinetta una fila di hostess impegnate a far nulla, chiedo sorridente i dadini di tramezzino, e quelle mi guardano con disprezzo e mi dicono che il servizio inizia a mezzogiorno. Certo, per carità, doveste contravvenire all’orario stabilito dalla Nasa per questo lancio di missili. Sono salita sul mio treno di mezzogiorno digiuna, e maledicendo silenziosamente quei cafoni sfaccendati di Trenitalia, ma non me ne sono pubblicamente lamentata.
Così come non mi lamento pubblicamente ogni volta che prendo un treno a Milano e ci metto venti minuti ad arrivare dal metrò o dal taxi al binario, perché chi gestisce la stazione ha deciso che io debba passare davanti a ogni possibile negozio di mutande d’acrilico, su tapis roulant sui quali la gente sta immobile evidentemente convinta che sui tapis roulant non si possa camminare, mentre si fa sempre più imminente l’ora della partenza del mio treno (o del diniego del mio dadino di tramezzino) e tuttavia spiacenti, gli architetti postmoderni hanno deciso che è più importante ch’io passi davanti a quarantacinque vetrine Vodafone, vedi mai fossi l’ultima italiana senz’abbonamento telefonico e cogliessi l’occasione per cablare la capanna di Unabomber.
Tutto questo per dire che io sono consapevole che mi abbia detto culo a non dover prendere un treno a Roma o a Milano lunedì, quando sui display degli orari è comparsa la scritta «Siete insetti», l’ennesima puttanata promozionale dell’ennesima serie che non guarderò su Netflix (o, come si dice nel più sintetico inglese, guerrilla marketing).
Ma leggo sul Corriere e su Repubblica grandi rassicurazioni sul fatto che le ferrovie o le stazioni o chi diavolo è che si occupa di gestire i tabelloni con gli orari, insomma nessuno è stato hackerato, niente paura, «soltanto una riuscita campagna di marketing della piattaforma di streaming americana».
Il tutto è quindi avvenuto con la complicità retribuita delle stazioni, che già abitualmente ci comunicano all’ultimo minuto il binario, facendoci correre come scemi nonostante siamo lì da mezz’ora ad aspettare invano che ci dicano da dove partirà un treno che parte tutti i giorni alla stessa ora e non si capisce perché il binario sia un’incognita. Lunedì hanno deciso di aggiungerci un friccico. Così, un modo in più di rischiare di farci perdere il treno: al posto degli orari e dei binari, mettere la pubblicità.
I pubblicitari imbecilli di Netflix sono meno colpevoli di chiunque, stazioni o ferrovie o comuni o sarcazzi, abbia ritenuto questa una buona idea, e abbia pensato che in fondo chi se ne frega di farsi odiare dai viaggiatori che sono la nostra clientela, se possiamo ramazzare due spicci da Netflix offrendo un disservizio a chi paga il biglietto.
Speriamo che continui a dirmi culo, e di non dover mai viaggiare in un giorno in cui qualche genio delle trovatine promozionali si fa venire una di queste brillanti idee. Perché, se mi trovavo «siete insetti» al posto dell’agognato numero del binario, io come minimo andavo a dar fuoco ai dadini di tramezzini. Fuori orario.