Nel mese di luglio ricorre il ventinovesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, una città della Bosnia Erzegovina dove le forze serbo-bosniache del generale Ratko Mladic trucidarono oltre ottomila bosniaci musulmani. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione, nel maggio 2024, che ha proclamato l’11 luglio come Giornata Internazionale della memoria del genocidio di Srebrenica e si spera che questo gesto possa contribuire a non far dimenticare quanto avvenuto nel 1995 nella martoriata regione balcanica. In Bosnia-Erzegovina, invece, il massacro divide le due entità federali statali.
Nella Repubblica Srpska, la regione popolata in massima parte da serbo-bosniaci e guidata dal nazionalista e russofilo Milorak Dodik, l’11 luglio è una normale giorno lavorativo mentre nella Federazione Di Bosnia Erzegovina, dove convivono bosniaci e croati, è una giornata di lutto non lavorativo. Si tratta di una difformità evidente ma è solamente una tra le tante che impedisce al Paese balcanico di funzionare normalmente.
La nascita della nazione è stata voluta dalla comunità internazionale che, con gli Accordi di pace di Dayton del 1995 ha posto fine alle guerre balcaniche. La complessa architettura istituzionale creata per far convivere Bosniaci, Croati e Serbi all’interno dello stesso Stato non ha, però, mai funzionato. La Repubblica Srpska è alleata con Belgrado e Mosca, è fortemente ostile nei confronti dell’Alleanza Atlantica e continua a essere pervasa da tendenze nazionaliste e secessioniste. La Federazione guarda verso Bruxelles e Washington, vorrebbe entrare a far parte dell’Unione europea e della Nato e la componente bosniaca punta al superamento delle differenze territoriali e al rafforzamento dello Stato centrale.
Le due entità territoriali hanno ampi poteri politici e un proprio governo mentre le istituzioni centrali sono piuttosto deboli e risentono della necessità di garantire lo stesso spazio alle tre componenti etniche. La Presidenza statale, tripartita e ruotante ogni otto mesi tra un Bosniaco, un Croato e un Serbo, nomina un Consiglio dei Ministri multietnico che deve ricevere la fiducia della Camera dei Rappresentanti. Quest’ultima si compone di quarantadue scranni, ventotto spettanti alla Federazione e quattordici alla Repubblica Srpska. A vigilare sull’attuazione degli accordi di Dayton c’è l’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina, nominato dalle nazioni che vigilano sull’attuazione della pace e sino a oggi sempre cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea. L’Alto Rappresentante, che ha ampi poteri, può porre il veto sulle norme più controverse varate dalle istituzioni bosniache ma la sua figura comprime l’autonomia della Bosnia Erzegovina.
Il lavoro delle istituzioni statali e dell’Alto Rappresentante, attualmente Christian Schmidt, è complesso ma la leadership della Repubblica Srpska lo ha reso ancora più difficile. A partire dal 2021 i rappresentanti dell’entità territoriale hanno boicottato il lavoro delle istituzioni centrali dopo che l’ex Alto Rappresentante Valentin Izko aveva varato un provvedimento che sanzionava il negazionismo del genocidio di Srebrenica. Alla fine dell’anno Dodik ha annunciato il ritiro della Srpska dalle Forze Armate e dalla Corte Suprema. Nel giugno 2023 l’entità serba ha disconosciuto la Corte Costituzionale e le direttive di Schmidt mettendo in discussione l’architettura istituzionale e la stabilità del Paese. Una mossa spregiudicata che si inquadra nella personalità istrionica di Dodik, sempre pronto a ritagliarsi un ruolo di primo piano negli affari interni.
Il leader serbo-bosniaco, sotto processo per aver ignorato le direttive dell’Alto Rappresentante, ha reso noto che nel prossimo futuro verrà indetto un referendum sull’indipendenza della Repubblica Srpska e ha dichiarato che l’entità territoriale potrebbe unirsi alla Serbia in seguito alla probabile secessione. Dodik agita lo spauracchio dell’autodeterminazione da circa un decennio e i ripetuti successi elettorali del suo partito, l’Alleanza dei Social Democratici Indipendenti controlla la presidenza della Repubblica Srpska dal 2006, indicano che la sua retorica etno-nazionalista gode di un certo seguito tra la popolazione.
Dodik è molto vicino alla Russia di Vladimir Putin, incontrato nel mese di marzo nella città di Kazan. Il Presidente della Repubblica Srpska ha difeso, durante il summit, l’intervento di Mosca in Ucraina, si è lamentato delle pressioni occidentali affinché la Bosnia-Erzegovina aderisca alle sanzioni contro il Cremlino e ha affermato che la nazione balcanica non aderirà mai alla Nato. I rapporti sono molto buoni anche con la Bielorussia di Aleksandar Lukashenko, con l’Ungheria di Viktor Orban, da cui ha recentemente ricevuto un forte sostegno politico e ovviamente con la Serbia di Aleksandar Vucic.
Le complessità del quadro politico della Bosnia-Erzegovina pesano come un macigno sulle prospettive di adesione all’Unione europea. La nazione ha ricevuto lo status di Paese candidato nel dicembre 2022 mentre nel marzo 2024 il Consiglio europeo ha dato il via libera ai colloqui di adesione purché Sarajevo implementi le quattordici priorità indicate dalla Commissione Europea nel 2019. Tra queste ci sono le riforme del sistema giudiziario e istituzionali, la tutela dei diritti umani e altri temi che devono essere affrontati per avvicinare la Bosnia-Erzegovina agli standard fissati da Bruxelles. Risulta, però, difficile immaginare che Sarajevo possa procedere spedita verso l’adesione. Le minacce di secessione, l’etnonazionalismo di Dodik, la paralisi delle istituzioni e il rischio di un collasso statale sono problemi prioritari che andranno risolti qualora Sarajevo voglia veramente entrare a far parte della famiglia Europea.
Un sondaggio, realizzato nei mesi di febbraio e marzo 2024 nei Balcani Occidentali, ha evidenziato che il 68 per cento della popolazione della Bosnia-Erzegovina voterebbe in favore dell’adesione all’Unione europea in presenza di un referendum. Il radicamento del sentimento europeista, sebbene in calo rispetto al 76 per cento di risposte positive registrate nel 2022, è uno dei pochi elementi unificanti all’interno del tessuto socio-politico bosniaco.
L’ingresso nella Nato, ad esempio, ha ricevuto solamente il 50 per cento di sì e appare probabile che i consensi siano concentrati nella Federazione piuttosto che nella Repubblica Srpska. Un altro dato interessante è la condanna, più o meno forte, espressa nei confronti della Russia per le azioni compiute in Ucraina. Il 65 per cento dei bosniaci ritiene, infatti, che le mosse di Mosca siano poco o per nulla giustificate. L’inevitabile allungamento delle prospettive di adesione e il ruolo pervasivo della propaganda mediatica filorussa rischiano, però, di indebolire ed erodere i consensi registrati dal fronte europeista a vantaggio del Cremlino. Bruxelles può contare su molti sostenitori in Bosnia-Erzegovina ma dovrà riuscire a offrire loro dei risultati tangibili se non vorrà perderli per sempre.