Oggi si celebra l’Eid al-Fitr, il giorno della rottura del digiuno imposto dal Ramadan. Più che una festa, un’occasione di raccoglimento e vicinanza per la comunità islamica, che al termine della preghiera si scambia l’Eid Mubarak, il tipico augurio di questa giornata. La conclusione del mese sacro è uno degli avvenimenti più importanti per quasi due miliardi di fedeli islamici in tutto il mondo, un appuntamento irrinunciabile anche per tutti coloro che sono lontani dalla propria casa, in viaggio attraverso terre straniere e diretti verso quella che sperano possa diventare la loro nuova casa.
Tra queste aree di transito c’è la Bosnia-Erzegovina, che ha da poco ottenuto il riconoscimento dello status di Paese candidato per l’ingresso nell’Unione europea. Un luogo simbolo della storia recente, col ricordo del massacro di Srebrenica ancora vivido negli occhi di chiunque abbia vissuto gli anni della guerra civile nei territori che fino ad allora si chiamavano indistintamente Jugoslavia.
Dal 2018 la Bosnia è un nodo centrale lungo la rotta balcanica, un passaggio quasi obbligatorio per migliaia di migranti che tentano il “game” dal Medio Oriente fino al cuore dell’Europa. Un gioco – così viene chiamato – pieno di insidie, dove alle asperità dei territori attraversati per ampi tratti a piedi si affiancano spesso forti difficoltà, dai controlli fino ai pushback, i respingimenti lungo le frontiere. Da sei anni a questa parte, il Paese non è riuscito però a proporre politiche di gestione del fenomeno realmente efficaci, complice anche l’estrema complessità istituzionale con la tripartizione tra Bosnia, Erzegovina e Repubblica Srpska (la Repubblica Serba di Bosni-Erzegovina, abitata prevalentemente da serbi cristiani ortodossi). Attualmente sono sei i campi di transito per l’accoglienza presenti sul territorio nazionale, con un totale di cinquemila posti letto, ai quali vanno però aggiunte le tante persone che cercano ripari improvvisati nei rifugi e nei boschi.
«Qui in Bosnia c’è molto lavoro da fare per quanto riguarda l’immigrazione: le nostre attività psicosociali puntano a rendere la permanenza delle persone un po’ più piacevole. Le distraiamo un po’ dal fatto che stanno vivendo questa esperienza drammatica e gli permettiamo di riprendersi per poter poi proseguire il loro game». Elena, Federica, Irene e Claudia vivono in Bosnia dal 2023 per svolgere la loro attività di volontarie del servizio civile con l’ong Ipsia-Acli, nell’ambito del progetto “BRAT – Balkan Route: Accoglienza in Transito”. Nei campi di transito di Bihac e Borici sono attivi i Social Café, spazi in cui sorseggiare una bevanda calda durante corsi di lingua, giochi e laboratori creativi.
Durante il Ramadan queste si sono letteralmente trasformate per via del cambio dei ritmi giornalieri imposto dal mese sacro: «A Lipa è stato un po’ uno shock perché eravamo abituate a vedere la coda di persone in fila per la colazione. Il primo giorno di Ramadan avevamo preparato i soliti litri di tè e il caffè ma sono rimasti praticamente intonsi perché le persone, dovendo pregare durante la notte, la mattina sono rimaste a dormire e sono arrivate a mezzogiorno, quando abbiamo cominciato la nostra pausa pranzo», racconta Elena.
Da quel momento turni e attività sono cambiati, con tè e caffè distribuiti all’interno di bottigliette di plastica così da poterli bere durante l’iftar, il pasto serale con cui i musulmani interrompono il digiuno durante il mese sacro. Come spiega Federica, con il Ramadan si sono interrotti anche i corsi di lingua: «Le lezioni erano impraticabili, la gente era troppo poca e comunque anche chi c’era non aveva le forze per seguire, anche se si tratta di un insegnamento di base». Se alcune dinamiche sono state sovvertite, altri eventi sono stati invece organizzati appositamente per celebrare la sacralità del Ramadan: i corsi di art and craft sono diventati occasioni preziose per produrre decorazioni e nei campi sono stati organizzati anche degli speciali iftar per far mangiare tutti insieme, locali e migranti, e conoscere la cultura e il cibo bosniaco. «Ci siamo ritrovati alle 17, abbiamo avuto una piccola lezione sulla storia del cantone di Una-Sana, la regione in cui ci troviamo”, ricorda Elena. «In seguito abbiamo atteso il tramonto, che quel giorno era alle 18.27, me lo ricordo bene! Quindi ci siamo seduti sui tradizionali tappeti bosniaci e riuniti attorno ai sofra, dei tavolini bassissimi tipici delle zone dell’ex impero Ottomano, su cui alcune donne appartenenti a un’associazione locale aveva preparato del cibo bosniaco, che tra l’altro ha molto in comune con la cucina araba».
«Il nostro obiettivo principale è far sentire le persone trattate da esseri umani, fornirgli tutto il supporto necessario e, soprattutto, dargli ascolto – sottolinea Federica -. Se poi alla fine di una lezione imparano a dire “ciao, come stai?” in un’altra lingua tanto di guadagnato, ma lo scopo è concedere innanzitutto momenti di umanità». In luoghi di passaggio non è affatto scontato che le persone possano trovare supporto spirituale, religioso e culturale, tanto più considerando lo stato in cui versano i campi di transito in Bosnia, dove la permanenza media è di qualche giorno.
Lipa, a una trentina di chilometri dalla città di Bihać, ospita i single men, ovvero gli adulti che arrivano individualmente, mentre a Borići trovano ospitalità le famiglie e i minori non accompagnati. Parlando di numeri, le volontarie raccontano come nel 2023 si sia registrato il numero più alto di transiti dal 2018, con Lipa al di sopra della capienza effettiva: «Il boom c’è stato a gennaio, si parlava di millecinquecento persone ma non c’era posto per tutte. Molte venivano mandate in altre strutture a Sarajevo», racconta Irene. Sulle presenze molto dipende però anche dal turnover: «Questa estate c’erano numeri esigui dentro i campi ma a Trieste erano anni che non si vedevano così tanti arrivi», dice Claudia, ricordando poi che all’inizio dell’estate i controlli alle frontiere con la Croazia si erano allentati, prima di intensificarsi nuovamente dopo lo scoppio del conflitto in Palestina.
Da Borići, dove ogni due settimane si danno il cambio con le colleghe di stanza a Lipa, Claudia e Federica fanno il punto sul tema del controllo dei migranti alle frontiere: «Il confine bosniaco-croato è forse quello meno presidiato per via delle sue caratteristiche morfologiche, mentre lungo quello serbo ma anche in Grecia c’è un livello di sicurezza altissimo». A ben guardare, l’impressione è che gli investimenti in campo migratorio si stiano spostando dall’accoglienza verso il controllo e la dissuasione per mezzo di strumentazioni tecnologiche anche molto avanzate, compresa l’intelligenza artificiale: «Prim’ancora di arrivare sei già schedato, esiste un database che attraverso software di IA lancia l’allarme non appena individua una persona dai tratti non caucasici».
Le volontarie non hanno mai assistito ai respingimenti lungo i confini ma tutto ciò che sanno proviene dai racconti dei migranti in transito nei campi: Parliamo tutti i giorni con persone provenienti da Siria, India, Marocco, Pakistan e Afghanistan che vengono respinte alla frontiera”, dice Elena. «Dicono “oggi provo il game, inshallah (buona fortuna)”, e tu rispondi “inshallah”. Ma poi finisci per rivederle il giorno dopo o quello seguente». Le persone partono finché non riescono a superare i confini: come racconta Federica, c’è gente che ha provato anche dieci volte il game spendendo all’incirca mille euro per ogni tentativo. «Quando provi il game ci rimetti tu, il tuo corpo, la tua salute, la tua mente e il portafoglio tuo o di chi ti manda i soldi. Senza contare il rischio di incappare nelle violenze della polizia di frontiera».
Dalle parole delle volontarie si evince come la vita nei due campi in cui opera Ipsia abbia numerosi tratti in comune (tra cui le attività dei Social Café), ma anche profonde differenze. Il campo di Lipa, finanziato con tre milioni di euro provenienti principalmente da fondi europei, sorge su un altopiano a sei ore di cammino da Bihać.
Qui è consentito entrare solo tramite un permesso governativo e una volta all’interno non si possono scattare foto né video: «Qui Ipsia si impegna per abbattere il più possibile la distanza che può sorgere tra persone migranti e popolazione locale, provando a creare ponti», afferma Claudia. La struttura di Borići si trova invece in città e le persone possono entrare e uscire abbastanza liberamente anche se «fino a poco tempo fa vigeva il coprifuoco imposto al tempo del Covid-19, con l’ultima uscita alle 15.30 e l’ultimo ingresso entro le 16».
Uno dei temi più delicati nella gestione del campo di Borići riguarda la presenza dei minori non accompagnati, collocati in sezioni separate rispetto ai nuclei familiari e alla presenza costante di un legal guardian. «La cosa strana – ammette Irene -, è che spesso arrivano minori che hanno meno di cinque anni e altri che invece hanno visibilmente anche più di trent’anni, ma in assenza di documenti il riconoscimento si basa sulla parola dei singoli». «Molti si dichiarano minori per rimanere a Borići, che è un ambiente più tranquillo, mentre tanti altri affermano di avere più di diciotto anni per poter seguire i propri amici o conoscenti nel campo di Lipa», aggiunge Claudia.
Differenze, divergenze e angoli ancora da smussare nella gestione migratoria in Bosnia. Al netto dell’impegno dei tanti volontari impegnati in prima persona anche nel coinvolgimento attivo e nella sensibilizzazione della comunità locale, un ultimo fattore da considerare in prospettiva futura riguarda il processo di adesione del Paese all’Unione europea. Come sostiene Federica, l’approvazione della candidatura bosniaca all’Ue è ancora troppo recente ma di norma «la popolazione locale lo considera un obiettivo lontanissimo poiché non ha grande fiducia nelle loro stesse istituzioni».
L’Ue, dal canto suo, spinge affinché l’efficienza della macchina amministrativa aumenti in tutto il Paese: si tratta di un traguardo complesso anche sul tema migratorio perché, come spiega Claudia, «da tre anni non si è ancora concluso il passaggio di consegne per la gestione delle migrazioni tra Iom, ministeri e governi cantonali, e considerando l’assetto istituzionale del Paese, trovare un accordo appare sempre più difficile». Così com’è difficile che, almeno per ora, in Bosnia si guardi all’Europa come panacea se non di tutti i mali, quanto meno dei propri: «Non ho mai incontrato una persona che pensa che la Bosnia possa entrare davvero nell’Unione europea – conclude Claudia -. Qui nasci con la consapevolezza che a Srebrenica è successo tutto sotto gli occhi di tutti e nessuno ha fatto niente. È un trauma troppo recente per essere cancellato o rielaborato».