«Il siciliano è un essere orgoglioso», esordisce e confessa Stefania Petrotta, giornalista enogastronomica e moderatrice del tavolo di confronto dedicato alla pasticceria all’interno del Sicilia Gastronomika Festival. «Ma è anche disposto a scoprire che quello che fa può essere fatto meglio». Tuttavia, utilizzare ingredienti esotici e modaioli non è la strada giusta per innovare, soprattutto in un territorio ricco di ingredienti e tradizioni come la Sicilia. Una regione che – come altre – vive di ossimori: se da un lato nessuno cucina come la nonna, dall’altro si fatica a distinguere un croissant di pasticceria da un cornetto del supermercato e a giustificarne il prezzo.
Alcuni dei professionisti che hanno partecipato all’hackathon affrontano ogni giorno la sfida che si presenta a coloro che scelgono di tornare a casa: realizzarsi professionalmente contribuendo, al contempo, all’evoluzione del territorio e della comunità a cui sentono di appartenere. E se i cugini d’Oltralpe possono aspirare al titolo di Meilleur Ouvrier de France (Miglior Artigiano di Francia), recentemente emulato dal premio istituito con la legge Massari, pasticcieri e pastry chef italiani non si sentono valorizzati, internamente al settore e tantomeno nella percezione del consumatore.
Le ore dedicate a diversificare il cestino del pane, che al Sud è inaccettabile inserire come voce del menu e di conseguenza non costituisce un valore aggiunto neppure per il ristoratore. Gli investimenti richiesti per costruire un laboratorio ad hoc, meritevole dello spazio e della dignità riservati alle portate salate. Le energie impiegate nella selezione degli ingredienti migliori, non solo per il palato ma anche per l’ambiente e per la società, affinché sia sempre garantita la corretta retribuzione di tutta la filiera. I mille tentativi necessari a creare un dessert coerente con il percorso principale, per omaggiare il cliente con una ciliegina all’altezza della torta.
Tutto questo impegno è troppo spesso trasparente, o addirittura dato per scontato. Il pastry chef diventa utile solo in funzione della conquista del macaron. E mentre la consapevolezza di chi si approccia all’alta cucina cresce, il valore percepito in pasticceria continua a restare basso. Le creazioni dolci non risultano abbastanza ricche da motivare una spesa maggiore, perché in Sicilia (e non solo) i dipendenti sono una variabile non contemplata nel food cost: nell’immaginario comune il marito vive in laboratorio e la moglie al bancone.
Una prospettiva tristemente diffusa, che per essere sovvertita ha bisogno di una comunicazione forte, quasi prepotente. E se nella sala di un fine dining il giro tra i tavoli diventa un’occasione per raccontare prodotti e pensieri, in una pasticceria vanno tutti troppo di corsa: che sia la colazione prima di entrare in ufficio, o la guantiera di mignon ritirata al volo con l’automobile in seconda fila, nessuno ha il tempo o la voglia di ascoltare.
E quando il curioso di turno domanda: «Buoni questi cornetti, che marca sono?», bisogna provare a spiegare il lavoro immane dell’artigiano che li ha preparati, anche se questo sforzo non darà i frutti sperati. Perché non tutti i consumatori nascono istruiti, e solo comunicando in modo sempre più efficace – anche sui social – i professionisti riusciranno cambiare la percezione esterna (e di conseguenza interna) al settore.
Anche spingere prodotti nuovi in un territorio così radicato nelle sue tradizioni gastronomiche non è banale, perché equivale a sfondare il muro di scetticismo innalzato dal tipico siciliano che confronta ogni parmigiana con quella della zia o della nonna, imbattibile per definizione.
Ma questa regione ha ancora tanto da offrire e soprattutto non ha bisogno di ricorrere a ingredienti introvabili e carissimi per fare innovazione: la chiave sta nel preservare la memoria del gusto coltivata di generazione in generazione e costruire su di essa con sapienza, passione e rispetto.