Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine L’età dell’insurrezione + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
Le forze illiberali sanno bene che il tempo, la demografa e il sistema stesso stanno lavorando insieme contro di loro. La natura del Paese è cambiata troppo. E il suprematismo bianco sta perdendo la sua percorribilità come piattaforma politica mano a mano che la popolazione bianca diminuisce. L’unica opzione, sostengono alcuni intellettuali antiliberali come Patrick Deneen e Adrian Vermeule, è rovesciare il sistema. Adesso. Quest’anno.
Ormai i pensatori che sostengono posizioni illiberali parlano apertamente di rovesciare il sistema o di minarlo dall’interno. Abbandonati da un Partito repubblicano che «non si preoccupa veramente di loro» e da un «establishment conservatore» che si è rassegnato «al progetto dei liberal che vogliono narcotizzare il popolo americano trasformando il Paese in una nazione di schiavi», quelli che si oppongono al liberalismo «sono costretti a tremare senza sosta sotto la scure», come scrive uno studioso conservatore. Se non si interverrà in modo drastico, sostengono, «la vittoria della tirannia progressista sarà assicurata. E arrivederci nel gulag» [i virgolettati sono tratti da articoli di Glenn Ellmers e Adrian Vermeule, ndr].
Questi pensatori antiliberali stanno apertamente cercando di liberare la nazione dalla visione liberale L dei Fondatori degli Stati Uniti. L’eredità dei Fondatori è un “vicolo cieco”, scrive Glenn Ellmers, uno studioso del Claremont Institute. La Costituzione è «come un villaggio Potëmkin». Le elezioni, «anche se condotte legittimamente», non «riflettono più la volontà del popolo», ma assomigliano alle elezioni dei «regimi comunisti del Ventesimo secolo». Infatti – sostiene Ellmers, riproponendo la tradizione antiliberale nella sua forma più elementare – «la maggior parte delle persone che vivono oggi negli Stati Uniti (sicuramente più della metà) non sono americane in nessuna sensata accezione del termine». Sono «zombie» e «roditori umani» che vivono «una vita nell’ombra di un timido conformismo». Solo «i settantacinque milioni di cittadini che hanno votato alle ultime elezioni» per Donald Trump sono dei veri «americani».
Gli Stati Uniti, sostiene Ellmers, «sono diventati due nazioni che occupano lo stesso Paese». E scrive: invece di cercare di competere con i Democratici in elezioni che non riflettono la volontà del popolo, «perché non andare al sodo e saltare questa procedura ormai svuotata di senso?». L’«unica strada percorribile» è un rovesciamento «dell’ordine post-americano vigente».
Per sostituirlo con che cosa? L’obiettivo, insistono gli antiliberali, è la creazione di una società e di un sistema politico dediti al “bene comune”. Ciò a cui costoro alludono con queste parole è un Commonwealth cristiano: una «cultura che preservi e promuova l’ordine e la continuità e offra sostegno alla fede religiosa e alle istituzioni», attraverso una legislazione che «salvaguardi e incentivi la moralità pubblica, proibendone la volontaria corruzione», incoraggi un «esplicito e rinnovato riconoscimento delle radici cristiane della nostra civiltà», favorisca «occasioni pubbliche di preghiera» e dia impulso a una «rivitalizzazione dei nostri spazi pubblici che rifletta una più profonda consapevolezza del fatto che siamo chiamati a costruire delle imitazioni della bellezza che ci attende in un altro Regno» (questi virgolettati sono tratti dal libro Regime Change: Toward a Postliberal Future di Patrick J. Deneen, ndr).
Nessuno di questi intellettuali antiliberali, alcuni dei quali sono cattolici, spiega quale versione del Cristianesimo verrebbe promossa da un governo guidato dalle loro idee. A quanto pare, credono fduciosamente che la lotta durata cinque secoli tra protestanti e cattolici intorno alla dottrina cristiana sia stata risolta per sempre in modo amichevole. E sembrano non rendersi conto del fatto che il motivo per cui possono anche solo immaginare una nazione “cristiana” che non sia attraversata dalle letali dispute dottrinali che hanno segnato il Cristianesimo per due millenni è che negli ultimi due secoli il liberalismo americano ha costretto queste diverse confessioni cristiane a coesistere, insieme agli ebrei, ai musulmani e ai fedeli di molte altre religioni e di molti altri culti.
Non si capisce, comunque, come questi nazionalisti cristiani potrebbero evitare un rinfocolarsi delle dispute dottrinali sul signifcato di “bene comune” (dispute a causa delle quali i cristiani si sono massacrati a vicenda per secoli) nel caso in cui raggiungessero i loro obiettivi e riuscissero quindi a sostituire la società liberale americana con un governo che indirizzi le persone verso il “bene comune”. Per non parlare di quello che succederebbe ai non cristiani in quel commonwealth cristiano auspicato dagli antiliberali. Perché questi ultimi possono anche riempirsi la bocca del termine “giudeo-cristiano”, ma se il passato insegna qualcosa, è chiaro che non saranno né gli ebrei né i musulmani e probabilmente nemmeno i cattolici a determinare l’aspetto delle nuove istituzioni religiose approvate e sostenute dal governo di un’America “post-liberale”.
Ma parliamo dei bianchi: almeno i protestanti bianchi sono d’accordo fra loro nell’indicare che cosa costituisca il “bene comune”? E vivranno quindi in perfetta armonia una volta che le persone non bianche saranno state rimesse al loro posto (o saranno state allontanate) e il governo sarà stato depurato dalla wokeness? La storia dell’Europa dovrebbe sgombrare il campo da simili fantasie. I bianchi, storicamente, non hanno avuto più successo dei cristiani nel tentativo di trovare un accordo fra loro su che cosa fosse il “bene comune”. E per gli americani è sempre stato motivo di orgoglio il fatto che popoli che in Europa si erano combattuti per secoli potessero convivere pacificamente negli Stati Uniti.
Ma questa possibile convivenza dipende dal fatto che l’America è una società liberale in cui tutti godono di uguali diritti. La storia , però, dimostra ampiamente come questa non sia la condizione normale degli esseri umani. È quindi utopistico immaginare che non ci sarebbe una riemersione di quelle antiche divisioni, una volta che venissero rimossi gli argini posti dalle istituzioni liberali.
Gli intellettuali antiliberali non si danno pena di prendere in considerazione tutto questo. I Fondatori hanno lavorato per creare qualcosa che potesse durare. Gli antiliberali, invece, vogliono fare a pezzi ciò che è stato creato dai Fondatori, senza neanche avere un piano coerente per sostituire quello che smantellano. Hanno solo due obiettivi: la distruzione e la vendetta.
Agli occhi di questi intellettuali Trump è un veicolo imperfetto ma essenziale per la controrivoluzione. «Narcisista pieno di difetti» che soffre di una «vanità sconfinata», Trump «non sa applicare la disciplina necessaria per convogliare in modo efficace le sue tendenze creative/distruttive». E il suo movimento rimane quindi «naïf e mal guidato». Il fallimento di Trump, che non è riuscito a portare a compimento la controrivoluzione nel corso del suo primo mandato, è stato una conseguenza della sua incapacità di formare «una classe dirigente capace», ma gli intellettuali antiliberali hanno la risposta a questo problema: sono loro quella classe dirigente.
Costoro sperano di usare la distruttività ribelle del movimento di Trump per rovesciare un’élite progressista contro la quale, da soli, si sono sempre sentiti impotenti, e sostituirla con un’altra élite, un’élite di «aristoi consapevoli di se stessi» – come scrive Deneen [autore anche dei precedenti virgolettati, ndr] – che sia capace di individuare «sia la malattia che affigge la nazione sia la medicina rivoluzionaria necessaria per curarla» e sappia trasformare i «risentimenti populisti in politiche di largo respiro». Come Lenin, i promotori di questa aspirante nuova élite vogliono essere l’avanguardia della rivoluzione populista, agendo «in nome dell’intera classe operaia» e sensibilizzando la coscienza delle masse «non istruite». Infatti, secondo Adrian Vermeule, docente di Diritto a Harvard e intellettuale antiliberale di primo piano, sarà necessario imporre il “bene comune” anche se questo sarà in contrasto con «la percezione che il popolo ha di ciò che sia meglio per lui» – un concetto, questo, davvero molto leninista.
È chiaro che il nuovo governo antiliberale non sarà una democrazia. Si tratterà di una tirannia illiberale. Come scrive Vermeule, il nuovo Stato, con il suo «robusto esecutivo», «brucerà la fede liberal con ferri roventi», esercitando «la sua autorità per tenere a freno le pretese sociali ed economiche dei progressisti appartenenti alla borghesia urbana». Le zafate di violenza e prepotenza repressiva che promanano da queste dichiarazioni è intenzionale. Gli intellettuali antiliberali sanno bene che per cambiare il sistema liberale che essi vituperano non sarà certo sufficienìte limitarsi a una riforma legislativa. I Fondatori, nonostante tutto, sono riusciti a costruire un sistema in grado di difendersi da una ribellione antiliberale proveniente dal suo interno. Per coloro che si sentono oppressi dal liberalismo, l’unica possibile risposta è quindi rovesciare il sistema.
Per la prima volta dai tempi della Guerra civile, gli antiliberali hanno i mezzi per farlo. La conquista del Partito repubblicano da parte degli antiliberali dopo la vittoria delle elezioni primarie da parte Trump nel 2016 minaccia la democrazia liberale americana in un modo che i Fondatori non avevano previsto e per contrastare il quale non avevano predisposto dei sistemi di difesa. Lo sviluppo del sistema bipartitico, che i Fondatori non avevano immaginato, ha avuto molte conseguenze positive. Ma si è anche rivelato la botola attraverso cui la tirannia può intrufolarsi nel sistema e distruggere la democrazia.
Quando i Fondatori stabilirono il sistema di checks and balances attraverso cui scongiurare la possibile ascesa di un qualche demagogo desideroso di instaurare una tirannia, non immaginavano che ci sarebbero stati dei partiti nazionali capaci di radunare un gran numero di interessi interregionali. Il mondo in cui vivevano i Fondatori era organizzato in Stati che costituivano, nel loro insieme, più una confederazione di Paesi indipendenti che una nazione unitaria. Le diferenze tra una regione e l’altra degli Stati Uniti sembravano enormi così come, nell’epoca precedente allo sviluppo dei mezzi di trasporti a motore, sembravano enormi le distanze che le separavano: a quel tempo, le esigenze dell’Ovest in grande crescita erano radicalmente diverse da quelle del Nord-Est e del Sud.
L’idea che dei partiti nazionali potessero farsi portavoce di tutti quei disparati interessi statali e regionali sembrava improbabile. E, per lo stesso motivo, non si poteva neppure immaginare che un singolo demagogo potesse ottenere un seguito nazionale. I Fondatori speravano, in ogni caso, che il sistema di checks and balances da loro inseriti nella Costituzione sarebbe stato sufciente per contenere le ambizioni di un demagogo.
Ma questo presupposto poggiava su un’altra aspettativa: che i tre rami del governo – il Congresso, il potere esecutivo e il potere giudiziario – avrebbero custodito gelosamente le loro prerogative istituzionali. Per la gran parte della storia del Paese, tutto questo si è avverato. Anche nei casi in cui il partito del presidente ha avuto il controllo del Congresso, i leader delle due Camere, seguendo il dettato della Costituzione, hanno saputo resistere agli sconfnamenti del potere esecutivo nel campo del potere legislativo. Ma oggi l’unità dei partiti ha la meglio sulla competizione tra i diversi poteri. E i leader di partito al Congresso seguono sempre più spesso gli ordini impartiti dal presidente, qualora quest’ultimo appartenga al loro stesso partito.
Di certo, quantomeno il Partito repubblicano è ormai asservito a un solo uomo e al seguito popolare di cui quest’uomo dispone. Non si può più contare sul fatto che un Congresso dominato dai Repubblicani o una Corte Suprema dominata dai Repubblicani possa esercitare un’autorità indipendente qualora si tratti di difendere gli interessi del partito guidato da Trump.
In effetti, l’antiliberalismo ha trovato di nuovo casa in seno alla Corte Suprema. A metà del Diciannovesimo secolo, la Corte appoggiava il mantenimento della schiavitù, e non solo perché essa era protetta dalla Costituzione ma anche perché i giudici che ne facevano parte erano d’accordo con l’opinione della maggioranza secondo cui i neri non erano uguali ai bianchi. Poi, per quasi un secolo dopo la Ricostruzione (l’epoca seguita alla Guerra di secessione, ndr), la Corte avallò attivamente la segregazione ufciale e le leggi Jim Crow.
Oggi una parte maggioritaria della Corte ha adottato un “originalismo” che è intrinsecamente antiliberale, perché cerca di erigere a modello di costituzionalità le tradizioni e le prassi del Diciottesimo secolo e non quei principi liberali che i Fondatori promulgarono pur essendo pienamente consapevoli del fatto che essi fossero in contrasto con le prassi e le tradizioni degli americani dell’epoca. E quindi, visto il suo orientamento sempre più antiliberale e vista la partigianeria che ha spesso dimostrato (la decisione faziosa cinque voti a quattro nella causa Bush versus Gore del 2000 ne fu un esempio lampante), la Corte Suprema potrebbe rivelarsi un sostegno troppo fragile a cui appigliarsi se e quando, alla fine di quest’anno, dovesse scatenarsi una crisi elettorale e costituzionale.
Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine L’età dell’insurrezione + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.