Kamala Harris ha accettato la nomination del Partito democratico, e ha chiuso la convention di Chicago con una potente requisitoria contro Donald Trump e i suoi retrogradi e nostalgici progetti di limitare i diritti degli americani e di abbandonare gli alleati in giro per il mondo. Kamala ha rinnovato la promessa che l’America tornerà a fare l’America, ovvero la superpotenza globale che difende la democrazia e la libertà del mondo dalle minacce interne della setta trumpiana («sono fuori di testa») e da quelle esterne, poste dai dittatori e dagli autocrati, molto spesso amici di Trump (Kamala ha citato esplicitamente Vladimir Putin, il regime iraniano e i suoi affiliati, i terroristi di Hamas e Kim Jong Un).
Un discorso sorprendente, ma soltanto per chi continua a sottovalutare Harris, indirizzato non solo ai Dem ma anche ai repubblicani delusi dalla cricca trumpiana che ha sequestrato il loro partito (si era addirittura sparsa la voce che sarebbe intervenuto George W. Bush). Sarà la presidente di tutti gli americani, ha detto Kamala Harris, e prima di lei hanno parlato ex dirigenti ed elettori repubblicani indignati dalla trasformazione del loro partito nell’azienda personale di Trump.
Sorprendente anche il passaggio, per nulla scontato viste le proteste dei ProPal e di alcuni malumori interni, in difesa del diritto di Israele a difendersi dalla minaccia esistenziale posta dai terroristi di Hamas, accompagnato dalla promessa che l’America metterà sempre Israele nelle condizioni di potersi difendere, cioè tradotto: continuerà a fornirle armi. Stesso impegno d’acciaio per l’Ucraina aggredita dalla Russia. Insomma, a Chicago è nata la Kamala presidenziale, la Kamala Harris che si candida a guidare non solo l’America, ma anche il mondo.
Kamala ha citato a lungo sua madre, sua maestra di vita, che a diciannove anni, da sola, è partita dall’India per andare a studiare in America, ma anche i suoi idoli musicali Aretha Franklin, Miles Davis e John Coltrane, e ha ricordato la sua lunga carriera da pubblico ministero e da Attorney General in California, prima di diventare senatrice e poi vicepresidente. Anni dedicati a servire il suo paese, gli anni di “Kamala for the people”.
Chicago è stata la convention di Libertà, Patria e America, che a dirla così sembra più adatto a un’adunata conservatrice e non a quella del Partito democratico. È stata anche la convention delle metafore nazional-popolari sul Football molto care a Coach Tim Walz, il Ted Lasso prestato alla politica che Kamala Harris ha scelto come suo eventuale vicepresidente. È stata la convention in cui tutti hanno invocato il rispetto per i vicini di casa, non importa se liberal o conservatori, come modello di convivenza civile da inseguire per costruire una comunità sana e virtuosa (evidentemente gli americani non fanno le riunioni di condominio).
L’enfasi sulla libertà, una libertà gioiosa che guarda al futuro, è stata la cosa che è saltata più agli occhi in un partito che per anni ha lasciato la bandiera della libertà ai repubblicani (la canzone della campagna di Kamala è “Freedom” di Beyoncé, mentre Walz è stato salutato sul palco con “Rockin’ in the free world” di Neil Young).
Gli analisti spiegano che questa enfasi sulla libertà è una specie di liberalismo sociale che accompagna gli sforzi del partito per etichettare i trumpiani come coloro che vogliono imporre agli altri il loro modello di vita, come gli aggressori della nuova guerra culturale che divide l’America.
I Democratici dell’era Kamala rivendicano di essere loro i veri patrioti americani e indicano una nuova via per andare avanti. La regia è stata chiara, sul palco tutti hanno parlato dell’amore per il proprio paese, mentre i cartelli più distribuiti dai volontari dell’United Center ai delegati sono stati quelli con la semplice scritta «USA».
L’ex vice governatore repubblicano della Georgia, Geoff Duncan, minacciato e successivamente costretto a dimettersi per non aver accolto le richieste di Trump di invalidare la vittoria di Joe Biden nel 2020, è stato ancora più diretto quando dal palco ha invitato i repubblicani a casa a non avere paura di votare per la candidata di un altro partito: «Se a novembre voti per Kamala Harris non sei uno del Partito democratico, sei un patriota».
Kamala Harris sta costruendo il partito del Sogno Americano, quello di chi vuole portare alla Casa Bianca una donna, una donna nera, figlia di due genitori immigrati, una che da ragazza ha lavorato da McDonald’s, così come Alexandra Ocasio-Cortez è ancora oggi orgogliosa di aver fatto la barista fino a pochi anni fa. Il partito che candida un simpatico e goffo provinciale come Tim Walz, più a suo agio quando indossa le camicie di flanella rispetto alle grisaglie da statista. E anche quando Michelle Obama ha rivendicato di essere una persona «molto istruita e di successo, che per puro caso è nera», la sottolineatura è proprio sul fatto che in America tutto è possibile, anche raggiungere traguardi personali impensabili a prescindere dal colore della pelle e dalle condizioni sociali di partenza.
Gli oratori della convention hanno svolto il loro compito dentro una sceneggiatura attentamente costruita e perfettamente eseguita per dire che l’America non torna indietro, che non si può tornare indietro, ribaltando la condizione elettorale sempre scomoda – in tempi di ansia di cambiamento – di essere il partito di governo che candida l’attuale vicepresidente in carica.
L’operazione è riuscita: a due mesi e rotti dalle elezioni, Trump è il candidato che guarda al passato e vuole negare diritti acquisiti, e Kamala è la donna del cambiamento. Le convention servono esattamente a questo, a plasmare l’immagine del candidato, ma nella mia esperienza da veterano di nove convention in cinque elezioni presidenziali mai ho assistito a una narrazione così accurata e allo stesso tempo priva di qualsiasi indicazione programmatica.
Chi ha seguito i lavori di Chicago per capire che cosa farà Kamala alla Casa Bianca in caso di elezione, torna a casa senza averne un’idea precisa. Sì, si è fatto cenno alla generica protezione della middle class, agli aiuti per comprare casa, all’idea di calmierare i prezzi, a quella che Harris stessa ha definito «economia delle opportunità», ma niente di concreto e niente di più. Si è parlato, altrettanto genericamente, di immigrazione da governare, spostando comunque a destra la posizione del partito, nel tentativo di affrontare di petto una debolezza elettorale dei democratici e di usarla invece come punto di forza da ributtare sul campo repubblicano, da qui l’enfasi ossessiva sul progetto di legge bipartisan per mettere al sicuro il confine meridionale americano fatto saltare da Trump per suo tornaconto personale.
La politica estera, invece, è materia considerata elitaria, per tre giorni gli strateghi della convention hanno preferito puntare sulle metafore sportive di coach Walz anziché avventurarsi in analisi geopolitiche, ma ieri notte prima con l’ex capo della CIA Leon Panetta, e poi con il discorso finale della candidata, il team Harris ha rivendicato il ruolo dell’America nel mondo, dall’Ucraina a Israele.
Un nuovo Partito democratico, dunque: spietato, efficiente, organizzato, lontano dalla leggendaria battuta dell’umorista Will Rogers che da un secolo definisce immortalmente un partito noto per la sua struttura caotica: «Io non appartengo a nessun partito organizzato – disse Rogers – Sono un Democratico».
Un partito che ha deciso di presentarsi agli americani sminuendo il suo lato intellettuale: a parte Kamala Harris e Pete Buttigieg (entrambi figli di intellettuali marxisti), e ovviamente Barack Obama, non si sono sentiti discorsi alti e visionari, una scelta precisa dettata dall’appeal anti-intellettuale di Trump, e dal fatto che probabilmente Obama è stato odiato dagli avversari per i suoi toni accademici più che in quanto nero.