Per transumanza si intende la migrazione stagionale dei capi di bestiame dai pascoli di pianura a quelli delle regioni montuose e viceversa. È una tradizione antica e impegnativa, estremamente scenografica, che si rinnova ogni anno in varie regioni d’Italia, compiuta per condurre bovini e ovini soprattutto in territori in cui possano pascolare in spazi ampi e rigogliosi, e di conseguenza produrre un latte ricco di sapori e caratteristiche aromatiche, essenziali per la caseificazione.
Oggi questa tradizione perdura anche in Valtellina, dove a inizio giugno è stata inaugurata la stagione estiva sotto gli ottimi auspici delle piogge fittissime, che si spera possano garantire pascoli floridi almeno fino al 30 settembre, quando si concluderà ufficialmente il periodo di migrazione.
Quest’anno il fenomeno ha coinvolto circa tremila bovine da latte e trecento capre, oltre a quarantacinque alpeggi che ospitano altrettante famiglie e relativi collaboratori, impegnati nell’avviare al meglio la produzione di Bitto e Valtellina Casera, due formaggi Dop – riuniti dal 1995 sotto un unico Consorzio – per i quali il periodo d’alpeggio è essenziale.
Il Bitto, in particolare, per essere definito tale può essere prodotto solo d’estate, con il latte crudo munto da bovine di razze tradizionali (bruna, frisona, pezzata rossa), che si alimentano al pascolo estivo.
Un disciplinare rigido, che esige un lavoro altrettanto rigoroso da parte degli allevatori, che durante i mesi trascorsi negli alpeggi – rifugi spartani e spesso scomodi, dotati dello stretto necessario per il lavoro – devono organizzarsi per effettuare due mungiture quotidiane e diverse lavorazioni in loco.
Non esattamente una villeggiatura dunque, ma l’inizio di una filiera che dall’autunno in poi darà lavoro ad aziende casearie e stagionatori locali. Infatti, una volta prodotte, le forme possono poi stagionare da un minimo di settanta giorni a un massimo di dieci anni, acquisendo con il passare del tempo sfumature di sapore sempre più decise e aromatiche.
Complementare al Bitto per storia e tempi di produzione, il Valtellina Casera è un formaggio di latteria vaccino e a pasta semidura, ottenuto da più mungiture di latte parzialmente scremato. La produzione è continua durante tutto l’anno, ma diminuisce durante l’estate – un tempo si interrompeva del tutto – proprio per dare spazio e tempo alla produzione del Bitto. La stagionatura minima è di settanta giorni, ma può prolungarsi fino a oltre trecento giorni, con una trasformazione della consistenza e del sapore del formaggio, che da dolce, floreale, con sentori di latte e yogurt, diventa sempre più decisa, si riempie di note di frutta secca, nocciola e fieno.
Valtellina Casera e Bitto, dunque, non sono solo simboli dalla storia e dei gusti di un territorio, ma esprimono anche le due facce dell’economia casearia della Valtellina. Lo racconta molto bene Marco Deghi, presidente del Consorzio per la Tutela dei Formaggi Valtellina Casera e Bitto, il 4 luglio alla presentazione della guida “Valtellina Casera e Bitto, una storia di unicità e gusto”, creata dallo stesso Consorzio: «Oggi queste due Dop rappresentano seicentocinquanta posti di lavoro per un fatturato alla produzione di 13,9 milioni e oltre 26,2 milioni di euro di valore al consumo, trainate per l’ottantasei per cento dal Valtellina Casera».
Infatti, il Valtellina Casera, pur essendo meno conosciuto rispetto al Bitto, tra i due è quello che funziona meglio sul mercato nazionale, soprattutto al Nord Italia, ed estero. Le ragioni del successo di questo prodotto sono molte, a partire dalle differenze tra i tre tipi di stagionatura, settanta, centottanta e trecento giorni, che propongono varianti molto competitive dello stesso prodotto.
Come spiega la guida del Consorzio, realizzata dall’esperto di enogastronomia Marco Bolasco, il settanta giorni si presenta con una colorazione tenue, profumi delicati, una consistenza fresca e morbida, mentre il trecento giorni si pone quasi agli antipodi, con una colorazione giallo intenso, pasta friabile e al palato note di frutta secca e fieno estremamente persistenti. Di conseguenza se la delicatezza del primo si abbina molto bene a sapori freschi come quelli di frutta e ortaggi, un buon esempio sono l’albicocca o l’asparago, il sapore deciso del secondo non viene smorzato da accostamenti con gusti forti come quello delle carni rosse o della selvaggina, o di un vino rosso ben strutturato.
Tra i due, poi, il centottanta giorni conquista il palato per la sua versatilità: caratterizzato da una pasta compatta, profumi di erba di montagna, mandorla e noce, accompagnate da una dolcezza di fondo leggermente fruttata, il centottanta giorni è ideale, sempre secondo Bolasco, per un abbinamento con funghi champignon crudi, radicchio, mele, o taralli.
Tutt’altra storia, invece, quella del Bitto, come si può intuire anche dalla risposta del mercato, perché si tratta davvero di un prodotto di nicchia, da scoprire, studiare e assaggiare, testando diverse forme e stagionature. Alla vista si riconosce per la tonalità gialla intensa, mentre al palato risulta morbido, elastico, sapido, con note di nocciola e frutta secca, da assaggiare accanto a salumi stagionati e vini corposi.
Anche in cucina, però, tra fornelli e preparazioni più articolate, Bitto e Valtellina Casera possono essere impiegati in portate salate e, sorprendentemente, dolci, basta avere un po’ di coraggio e fantasia, o in alternativa seguire una delle ricette che Alessandro Negrini, chef de Il Luogo di Aimo e Nadia, affianca a quelle già proposte nella guida del Consorzio: bucatino croccante con Bitto e pesteda; asparago bianco con polenta furmentùn (di grano saraceno), salsa di stoccafisso e il Bitto Dop; cannelloni con Valtellina Casera Dop, spinaci selvatici paruch e funghi porcini della Valmalenco.
Tre ricette con cui Negrini non si è limitato a utilizzare il Bitto e il Valtellina Casera nella loro singolarità, ma ha giocato con prodotti tipici della Valtellina, come la pesteda, battuto di aglio, sale, pepe, foglie di achillea nana e timo serpillo originario di Grosio, o il paruch, spinacio selvatico di montagna. Preparazioni tipiche e poco diffuse, che Negrini però conosce sin dall’infanzia, trascorsa a Caspoggio in Valmanenco, valle laterale della Valtellina, dove proprio il Casera è da sempre il formaggio che ogni famiglia conserva in dispensa, per preparare all’occorrenza – ma in fondo ogni ragione è buona – pizzoccheri e sciatt.