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Mi chiedo se continui ad avere senso, oggi, parlare del “grande romanzo americano”. Se ne abbia mai avuto. O se sia, quella di consegnarlo alle stampe, un’ambizione che accende ancora gli animi degli scrittori d’Oltreoceano. Ecco un romanzo che in modo inopinabile si inscrive nel panorama culturale da cui nasce e di cui narra. Ecco un romanzo che si fa sintesi dell’immaginario nel quale germoglia, illuminando le ombre e mettendo in chiaro i difetti e i desideri di un Paese così complesso quanto l’America.
Dalla tensione della Guerra fredda a scorrere in un riverbero che divampa negli ambienti domestici di John Updike fino al rapporto conflittuale che gli ebrei d’America possono maturare con la tradizione nell’universo letterario di Philip Roth, ciò che è certo è che nulla può restituire l’immaginario sociale meglio di come facciano i media, fra cui: il romanzo. Il bacino d’emersione che offre la letteratura è qualcosa d’irrinunciabile. E dunque potrà anche essere poco chiaro se l’obiettivo sia ancora quello di scrivere il “grande romanzo americano” oppure no, ma non lo sarà questo dato di fatto: lo spazio e il tempo della scrittura, le sue metafore, gli archetipi e i miti che la sostengono, parlano di noi. Per fino quando il noi si situa lontano da qui, con un oceano nel mezzo.
Attraverso i romanzi scritti in lingua inglese, allargando lo sguardo al Canada e alla Gran Bretagna, uno specifico sistema ideologico è caduto e continua a cadere dentro le letture di noi europei, sedimentandosi nella memoria. Una letteratura in cui vibra, sotto la superficie di storie e di stili diversi, il nodo puritano di cui è figlia. Una letteratura che potremmo de finire orizzontale, come l’enorme distesa d’acqua che i pionieri si trovarono a solcare in cerca della loro città sulla collina. Al confronto, il panorama della narrativa italiana o francese o tedesca o spagnola, sia pure con le sue differenze, mostra un indirizzo verticale. Avendo come germe quello della tragedia greca è una letteratura, la nostra, che scorre verso il basso, in giù, alla ricerca del male. E che non posiziona il male all’esterno, come elemento riconducibile semmai alla degenerazione della società, della politica o dei rapporti. Nella verticale, la prospettiva letteraria si stringe sull’Io e spesso le trame si assottigliano e la lingua si scarnifica rinunciando ai dialoghi. Nell’orizzontale invece le storie si allargano, si rendono più narrative, permettendo all’impianto drammaturgico di innalzarsi dalle fondamenta con una forma solida e compatta. Se Annie Ernaux prosciuga, Margaret Atwood, nella coincidenza degli stessi temi politici e femministi, aggiunge e allarga, costruendo universi complessi che annettono alla realtà la fantasia e il distopico. Prendiamo, ad esempio, due fra i più importanti scrittori americani contemporanei: Jonathan Franzen e Bret Easton Ellis.
Nei loro ultimi romanzi, “Crossroads” e “Le schegge”, a partire da contesti e personaggi di ferenti emergono un’identica imponenza di respiro e la stessa attitudine a costruire tramite la scrittura un’epica della modernità. Poco importa se Ellis mette in scena un gruppo di diciassettenni californiani che nel 1981 frequentano la prestigiosa Buckley School, dove dall’esterno arriva il male, nella persona di un ragazzo tanto attraente quanto brutalmente perverso, e che Franzen, invece, narri di una famiglia americana nei tumultuosi anni Settanta per rintracciarne i sogni e le paure e per indagare, da questo passato, la fondazione dei nuovi miti pronti a investire il Paese. Sono romanzi che, nella loro diversità, esprimono entrambi il gusto per una drammaturgia orizzontale, digressiva e polisemica.
Una simile eco vibra in uno degli esordi più riusciti degli ultimi anni, “Ohio” di Stephen Markley, splendida sinfonia di voci corrispondenti ognuna a un amico di liceo del protagonista, Rick, caduto in Iraq. Sarà una notte qualsiasi, una notte d’estate, a riunire i quattro personaggi della storia nella città in cui hanno vissuto da ragazzi ma che hanno lasciato da tempo. New Canaan è il tipico avamposto di provincia da cui ciascuno vorrebbe scappare, sonnacchioso e impoverito, dove prospera una middle class oramai sull’orlo del fallimento. L’economia cittadina è sostenuta da un giro di metanfetamine e dagli assegni di invalidità e tutto è pronto a trasformarsi nel catino dentro cui stanno per riversarsi il risentimento pro-Trump e una feroce rabbia antimusulmana. Ancora una volta, è un’ambiziosa enciclopedia del sapere contemporaneo sotto forma di un romanzo di fantasia che trae linfa dalla realtà politica ed economica, e al contempo anche dai miti fondativi dell’immaginario. Ancora una volta, l’epopea. L’arteria principale del racconto epico è il nodo identitario, di un popolo, di una nazione, di una civiltà. Dislocare le metafore lungo l’asse narrativo per far erompere, da vicende singolari, la fotografa corale di uno specifico modo di essere e di affrontare il mondo: è qui che batte il cuore del grande romanzo americano.
Prendiamo Donna Tartt e “Il cardellino”. Al di sotto degli intrighi e dell’azione che danno forma all’impianto, scorre il dilemma fondativo di ogni società alla ricerca di una propria scala valoriale: moralità o destino? Il bene è conseguenza delle proprie azioni o, più semplicemente, è agli slittamenti casuali della vita che dobbiamo la nostra fortuna? Dall’esplosione di una bomba e da un misterioso dipinto scomparso nasce un intrico che si infittisce, da cui emergono le paure e i desideri di una società sempre più effimera in cui ha un nuovo senso interrogarsi sui rapporti di forza: quello fra un padre e un figlio, quello fra realtà e finzione, quello fra vita e arte.
Qualcosa di simile accade in “Fato e furia” di Lauren Groff, seppure con una struttura diversa che in questo caso si compone a partire dalla stessa storia, un matrimonio, raccontata da due punti di vista. Il fato e, una volta che il fato si è venuto a dipanare, la furia. Un racconto orizzontale fino alla conclusione della prima voce, che poi vira in profondità, spaginando ogni movente dietro alle azioni di cui siamo stati partecipi, e tutti i sentimenti e gli impulsi. È una storia sovversiva che non sembra sovversiva, ha dichiarato l’autrice, forse riferendosi al modo in cui viene organizzata più che al tema sviscerato, quello di un rapporto di coppia che resiste negli anni. Ma pure in un universo formale meno attento alla tradizione, alla fine ciò che vibra fra le pagine è l’afflato epico. Le tre Moire che nella mitologia greca dimoravano nel regno dei morti hanno lasciato la scena agli umani, un marito e una moglie. Dalle grandiose gesta di eroi e combattenti si vira verso il ritratto in miniatura, quello di un matrimonio. E tuttavia, per fino all’interno di una vicenda così intima e familiare, viene a edificarsi un’epica della modernità.
I simboli e la loro trasformazione nel tempo, i cambiamenti che l’immaginario assimila e produce, ci portano dentro le maglie più strette del processo culturale e sociale di una nazione, a contatto con i suoi traumi e con le sue aspirazioni. Per questo la letteratura americana, laddove è supportata dal talento delle singole voci, vanta un indiscutibile peso nell’attualità. La storia ha una sua geografia, così come la geografia ha una sua particolare storia. Attingere alle ombre di entrambe è un processo fisiologico per noi umani e, se supportato da una sintesi poetica, è un dono prezioso reso possibile più che dalla cronaca, dalla politica o dagli studi sociali, dai media. Fra cui, il romanzo: una struttura che cambia a partire dalle schisi che si sono prodotte nel tempo, che non può che essere condizionata da quanto accaduto prima e che, nonostante ciò, riesce a trovare sempre nuove formule di presenti in cui a vibrare sono i passati multipli.
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