«Non ti preoccupare, qui sei al sicuro. Israele non attaccherà mai questo villaggio: sanno che siamo cristiani e sanno che i cristiani non sono ostili. Se danno il via a un’operazione militare, noi non saremo coinvolti». La struttura che si affaccia sulla valle a ridosso del confine con Israele non sembra un albergo, ma la residenza di una famiglia mediorientale benestante. Tutte le stanze degli hotel, qui, sono piene. Ci facciamo ospitare in un appartamento del villaggio dove vivono i cittadini locali.
Bisogna stare attenti con le luci, soprattutto quando si è fuori, sul balcone. «Israele ci guarda e non dobbiamo farci scambiare per target». Un cameraman avverte: «Mi raccomando, nessuno si metta a utilizzare lo zoom per inquadrare le postazioni israeliane». Poco dopo, arriva un giovane vestito di nero. Chiede i documenti, il gestore della struttura ricettiva ci spiega che è un emissario delle forze dell’ordine libanesi. L’ennesimo controllo si conclude con l’ennesimo «halas», tutto a posto. Alcuni giornalisti si spazientiscono per i continui controlli a cui siamo stati sottoposti nel tragitto tra Beirut e il Sud del Libano. In effetti, i nostri dati e le nostre foto sono da tempo in possesso alle autorità libanesi. Viaggiamo con un codice personale fornito dalle autorità, comunicato a voce, Se le cose peggiorano e se siamo fermati insieme ai documenti, dobbiamo fornirlo. «Figuriamoci se anche Israele non ci sta sorvegliando da lì», lamenta un altro collega.
Tuttavia, più siamo controllati, più siamo al sicuro: nessuno deve avere dubbi sul fatto che ci troviamo qui per fare i cronisti e basta. Intanto, ci dicono che il pagamento per l’appartamento deve avvenire per forza in contanti. Al limite tramite money transfer: «No credit card, qui non ci fidiamo delle banche». Il gestore, contento per l’alto flusso di arrivi nella zona, alza i prezzi e imbastisce trattative al telefono. C’è così poca disponibilità che pur di offrire una stanza viene chiesto un sacrificio alle famiglie locali, che per guadagnare affittano gli spazi delle proprie abitazioni.
Saliamo sulla terrazza dell’albergo. Tra i cedri lussureggianti sono stati appesi dei fili che reggono palloncini colorati. C’è la festa di un battesimo. Si alza il vento. E si alzano in volo anche i droni Heron che pattugliano l’area: vogliono individuare le postazioni di lancio dei missili di Hezbollah. Più i velivoli devono contrastare le correnti d’aria, più il rumore diventa assordante. Il caos nei cieli non interrompe le note della canzone di Ibrahim Tatlises, il cantante turco adorato anche in Israele. È ancora nella memoria di tutti la sua esibizione a Tel Aviv, nel 2005, dove l’artista cantò in ebraico, arabo e inglese.
Alla musica si mescola il vociare proveniente dalla tavolata di circa trenta persone, dove si sta celebrando il battesimo di un bimbo di pochi mesi. «Non avete paura?», chiedo. «No», rispondono, «dobbiamo pur continuare a vivere». È la normalizzazione della guerra. Arrivano tre bambini piccoli, uno con la maglia di Messi e un altro con quella di un giocatore dell’Inter. Gli faccio il nome di Calhanoglu. Lui sorride e poi, con una perfetta pronuncia mi elenca tutti i giocatori turchi che gli piacciono.
Mentre parliamo un misto di inglese e francese con degli invitati si sentono delle esplosioni. Una, due, tre… «Ah», esclama uno dei partecipanti alla festa, «questi sono colpi di cannone israeliani». Un bum, poi un altro: danno la sensazione di essere dei colpi corti, precisi e vicini. Un altro colpo, sensibilmente più forte degli altri: un effetto blast, afferma un abitante della zona, viene da più lontano. I residenti spiegano pazientemente. Passa una macchina piena di bambini, tutti bellissimi. Il più piccolo ha qualche mese ed è sulle ginocchia della mamma, sul sedile di fronte. È una famiglia che ricorda l’incipit più famoso della letteratura mondiale: sembrano felici. Il padre mi sorride con gli occhi e mi dà il benvenuto. Ai miei complimenti per i bambini ride con gusto «ne ho cinque della prima moglie e ne farò altri cinque dalla seconda». Lo sguardo della moglie giovanissima rivolto a lui è talmente pieno d’amore che non lascia nessun dubbio che l’ipotesi si realizzi.
Uno degli interpreti mi domanda per quanto tempo rimarrò in Libano. E aggiunge: «Ma lo sai che una volta che Israele comincerà a bombardare l’aeroporto di Beirut sarà chiuso, le strade bloccate e i ponti di collegamento saranno saltati? Voi sarete imprigionati in questa zona?». Gli rispondo che non è la prima volta che faccio l’inviata di guerra. Mi guarda un po’ incredulo e dice che sono l’unica donna reporter nella zona. Io replico dicendo che, poco prima, avevo incontrato un’altra collega. «Ma lei è araba, tu vieni dall’Italia, è diverso».
Comunque, sostiene, in caso di pericolo i giornalisti dovrebbero essere spostati in altri posti. «Chi ci sposterà?», domando. Mi guarda stupito: «Gli uomini di Hezbollah! Guarda che loro sanno come trattare le persone, sono dei professionisti. Non ti preoccupare», e si allontana sorridendo. Si diffonde un altro boato e dalla montagna si solleva una colonna di fumo grigio e nero. Sarà distante una manciata di chilometri.
Fa caldo, il giubbotto antiproiettile pesa tanto, al punto che alcuni colleghi che vanno in diretta, rimuovono i pesi dal suo interno. Il casco lo indossiamo soltanto quando partiamo all’inseguimento dei rumori dei bombardamenti, per cercare di comprendere chi ha colpito cosa. Un cittadino del luogo mi indica, uno per uno, i nomi dei villaggi libanesi e le zone dove si trova il territorio israeliano. Apro la mappa nel telefonino e li segno tutti. Mentre lo faccio sentiamo un boato che arriva dalla montagna di fronte. Ci dicono che è Aitaroun, uno dei villaggi sciiti controllati da Hezbollah al confine Nord di Israele.
Indicando una strada in salita, nelle parte opposta, racconta che prima del 2000 la gente del villaggio andava da lì in Israele per lavoro e tornava in Libano la sera. Sentenzia: «Noi cristiani vogliamo la pace».
Dietro il complesso circondato da alberi di cedro si intravede un villaggio abbandonato dagli abitanti di fede islamica, dopo i pesanti bombardamenti israeliani cominciati l’8 ottobre. «Potrebbero esserci ancora dei miliziani di Hezbollah, fino a qualche giorno fa c’erano 15-20 raid al giorno, ora meno. Ma mi raccomando, non andate mai vicino nei villaggi abbandonati, c’è il rischio di diventare un target per l’esercito israeliano».
È il momento di andare all’appartamento. Come succedeva a Beirut, anche qui gli autisti hanno istruzioni precise da rispettare: mai circolare con le auto senza targa; parcheggiare sempre in una posizione che guarda verso un’uscita, così da poter partire subito; mai dirigersi verso il luogo di un’esplosione, perché potrebbe arrivarne una seconda; mai lasciare la macchina incustodita, per scongiurare che qualche miliziano possa nasconderci dentro dell’esplosivo; parcheggiare sempre in un modo ben visibile e nelle aree aperte.
L’appartamento si trova vicino ai pochi caffè nel villaggio, tanto grande quanto spoglio. Manca il wi-fi e il gps non funziona. Entrambe le parti in causa del conflitto hanno bloccato le trasmissioni, con lo scopo di evitare possibili infiltrazioni. Noi giornalisti, però, dobbiamo segnalare la nostra posizione sia al datore di lavoro sia alle nostre ambasciate: non si sa mai. Facciamo una foto della via e del palazzo e annoto l’indirizzo da comunicare.
Da nessuno, qui, si sente proferire una parola negativa verso i media. Sono una popolazione amabile. È inspiegabile che gente così incline all’armonia possa essere martoriata da decenni di guerre. È paradossale, ma stare con loro induce un effetto quasi calmante. Da Beirut al Sud, nella zona del confine, ovunque e con qualunque persona di etnia e di fede diversa, non mi sono mai mancati né un sorriso né una parola gentile. È notte, ai rumori delle esplosioni si mescolano i ritmi del tamburo che viene dalla festa di un matrimonio festeggiato come se non ci fosse un domani. La gioia di vivere che c’è nel dna dei libanesi è dura a morire.