Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Etc dedicato al tema del tabù, in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
Londra, fine novembre. Fuori da una town house come tante altre a Soho si riversa una folla vociante. Lo spettacolo appare conviviale, inconsueto rispetto a tanti altri eventi in gallerie sterili, dove i manufatti esposti da celebri artisti non suscitano troppe emozioni. Questa sera, ad aspettarci è una cena che non si può mangiare. Una festa da capogiro, fatta di ostriche in ceramica dipinta e perle finte su un tavolo imbandito dove sono disposti anche vasi di spaghetti, angurie addentate, sandwich surrealisti, mozziconi di sigarette e fiammiferi in porcellana, eleganti tazze da te e anche una scacchiera con salatini vegetariani che sostituiscono le pedine. Alzando lo sguardo si scorgono fette di pizza appese ai soffitti, una cucina improvvisata, bistecche in tessuto e topolini che bivaccano sui fornelli, un cane di peluche malridotto in salotto. “Let Them Eat Fake” è una lotta contro elitismo e individualismo che raccoglie le opere di centotré artisti. Insieme, celebrano la familiarità, riflettendo allo stesso tempo in maniera critica sulle norme che regolano la società.
«Spesso classifichiamo le cose universali come arte di basso livello, se non sono presentate in uno spazio espositivo adeguato». Anna Choutova corre in soccorso per spiegarci che cosa si cela dietro a questa stravaganza. È la storia di un’associazione curatoriale che la giovane artista ha fondato nel 2016. All’epoca, quando cercava disperatamente di irrompere in quello che lei stessa definisce come “l’impenetrabile mondo dell’arte”, si sentiva rifiutata. L’approvazione da parte di questo fantomatico settore era tutto ciò che la neolaureata cercava, rimproverandosi di produrre un’arte mediocre, bad art per l’appunto. Rifiuto. Rifiuto. Rifiuto.
Eppure, «ogni genere di arte dovrebbe essere valido e per questo preso in considerazione, non è questo che ci insegnano a scuola? Così, piuttosto che continuare a lamentarsi, Anna sceglie di buttarsi, accogliendo lavori bizzarri, a volte volgari, ma divertenti e, soprattutto, che si rifiuta di vendere. In uno squat sgangherato a Tottenham, a Nord di Londra, il primo evento del collettivo Bad Art presentava tutti quei lavori di arte rifiutata che non erano ancora stati esposti nelle gallerie eleganti del centro. Bad Art esplora confini creativi reconditi, dove non tutti osano addentrarsi: «Ci piace sfidare qualsiasi tabu artistico ci si presenti, come toccare le opere». Ogni evento del collettivo prende forma dopo un’attenta analisi di tendenze, ossessioni e schemi di comportamento. “Let Them Eat Fake”, per esempio, riflette su come la pop culture sia un’operazione consumistica attentamente costruita e su come, sempre più spesso, tendiamo a consumare ingordamente il cibo con gli occhi, allontanandoci dall’atto del mangiare e del prenderci cura dei nostri corpi.
Ispirandosi alle sculture giapponesi di cibo finto, un’infinita serie di immagini food-porn accessibili online, seducenti descrizioni e preparazioni di ricette, questa mostra stuzzica i nostri sensi senza però nutrirci per davvero. Uno scherzo quasi feticizzato, difficile da cogliere: «È come masticare una gomma quando si ha bisogno di una bistecca per cena», precisa Anna che si è divertita a sposare fine dining e pratiche provocatorie. Con il suo vispo occhio curatoriale, si interessa ai tabù gastronomici combinando cucina raffinata e hardcore.
«In “Let Them Eat Fake” abbiamo discusso di questa trasgressione, esponendo scene sessuali esplicite, opere d’arte figurativa e delizioso cibo finto. Fino a che punto mettere qualcosa in quale orifizio diventa destabilizzante e trascende un tabù?», ci chiede la pittrice. Spesso il sesso spinge artisti e spettatori a pensare in modo sensuale, avvicinandoci al nostro corpo e alle nostre fantasie. Allo stesso modo in cui alcune aree di noi stessi sono scrutate attraverso la musica, i club e i feticci, anche l’arte visiva può offrire un’opportunità di evasione per il nostro sé più intimo. «Dipingere fragole e ostriche come afrodisiaci non è mai stato un problema: le agenzie pubblicitarie includono spesso il sesso nelle campagne. Eppure, le performance di Paul Mc Cartney che negli anni Settanta paragonava la maionese allo sperma e il ketchup al sangue, erano considerate come un atto troppo diretto e disgustoso… questo è il genere di tabù che mi piace indagare». Puoi sempre andartene.
Professoressa di arte appassionata di rave, ossessionata dalla musica, cruciverba e sigarette che non smette mai di dipingere, Anna stessa subisce il fascino dei tabù: vive la vita sognando di comportarsi male fino a che il senso di responsabilità e sensibilità sociale non interviene (e spesso se ne pente!). Il suo approccio artistico ruota intorno all’amore: ossessioni, schemi da rispettare, modi di pensare rigidi, dipendenze, sono tutte cose che amiamo forse un po’ troppo… Ecco perché nella sua pratica cerca di ammorbidire la connotazione di dipendenza, aggiungendo un pizzico di umanità a questo sentimento altrimenti crudele.
Anna è riuscita a vincere il tabù dell’arrabbiarsi. Dire a qualcuno che è furibonda, uscendo dalla stanza se necessario, erano cose che in passato viveva come un totale divieto. Da un po’, il suo nuovo mantra è: puoi sempre andartene. C’è poi il tabù della vita lenta, specialmente a Londra, una mega city in cui il successo si misura con i risultati. Qui, vivere significa essere visti e farsi notare: «Un modo totalmente capitalistico di convalidare la propria esistenza. Mettere da parte il tempo per non fare nulla, assorbire suoni, colori, luci e musica, può essere malvisto, come un’azione da eremita perdigiorno». Ancora una volta l’artista si mette in discussione, decidendo di dedicare interi fine settimana a lunghe camminate o giocando con le parole. «Questa scelta ha reso la mia creazione artistica un’esperienza molto più gioiosa».
Nonostante le origini contestatrici, propulsate dalle ansie della sua fondatrice, Bad Art si è tramutato in una comunità che federa più di cinquecento artisti internazionali, diretta con un approccio positivo, verso l’abbattimento della nozione di esclusività dell’arte, «vogliamo sfidare l’arte contemporanea con mostre trasgressive, proponendo nuovi metodi di interazione». I protagonisti di Bad Art sono persone normali che condividono questi valori e si uniscono ad Anna per perseguirli: «In molti casi fare parte di un collettivo come il nostro li rende felici». Il gruppo è fluido, a volte sono soltanto in due, altre in venti. Per quanto la comunità sia in evoluzione, gli intenti di inclusività restano invariati. In questi mesi, l’attenzione è puntata sull’attivismo artistico e si introducono integrazioni che potrebbero apportare una nuova dimensione partecipativa a Bad Art.