Sarà una corsa senza rivali quella che porterà (quasi sicuramente) il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune a vincere le elezioni e ottenere il secondo mandato consecutivo alla guida del Paese. Sostenuto dall’esercito e dai principali partiti nazionali, tra cui il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln), risulta fortemente favorito nei sondaggi rispetto agli altri due candidati, Youcef Aouchiche del partito di sinistra, Front des Forces Socialistes (Ffs), e Abdelaali Hassani Cherif dello schieramento politico islamista Mouvement de la société pour la paix (Msp). In un primo momento i partiti in lizza erano tredici, ma poi a dieci di loro è stata impedita la candidatura, ufficialmente per ragioni di endorsement politico.
Le elezioni, in programma per il mese di dicembre, sono state anticipate di tre mesi dal presidente in carica e si terranno oggi. Come spiega a Linkiesta Giuseppe Dentice, Responsabile del desk Mena del Centro Studi Internazionali (CeSI), Dottore di ricerca in “Istituzioni e Politiche” presso l’Università Cattolica di Milano, «la scelta di ridurre i tempi della campagna elettorale, limitandola ai mesi estivi, ha messo sostanzialmente fuori gioco i candidati dell’opposizione. E ciò è indicativo della volontà di Tebboune di non garantire un dibattito libero nel Paese».
Tebboune era stato eletto presidente dell’Algeria nel 2019, prendendo il posto di Abdelaziz Bouteflika, leader politico in carica da vent’anni e prossimo al quinto mandato consecutivo. In quell’occasione era stato un movimento di protesta, l’Hirak (che significa proprio “movimento”), a portare alle sue dimissioni dopo diverse settimane di manifestazioni, e Tebboune aveva avuto l’opportunismo di proporsi come alternativa al presidente deposto, intercettando le richieste di libertà e democrazia dei dissidenti insorti.
Ottenuta la maggioranza, Tebboune aveva promesso alla popolazione una “Nuova Algeria”, una visione politica che avrebbe dovuto segnare uno scarto rispetto al governo di Bouteflika e dei suoi predecessori, inaugurando – almeno in linea teorica – una stagione all’insegna dello Stato di diritto nel Paese. Si trattava di un proposito irrealizzabile, però. In Algeria il sistema politico è fortemente legato al potere militare per motivi storici. Prima la guerra d’indipendenza, combattuta contro la Francia tra il 1954 e il 1962, e poi la guerra civile negli anni novanta, tra reparti armati e sostenitori del Front islamique du salut, hanno conferito all’esercito la funzione di garante delle istituzioni repubblicane.
E anche nella transizione dal governo di Bouteflika a quello di Tebboune le forze militari hanno giocato un ruolo cruciale. Per questa ragione «il governo di Tebboune non è riuscito a modificare la struttura del regime», spiega Caterina Roggero, Senior Associate Research Fellow presso l’Osservatorio sul Medio Oriente e Nord Africa. «Anzi – aggiunge Roggero – la militarizzazione del potere, che è sempre rimasta sotto traccia negli scorsi anni, è diventata ancora più visibile in questo quinquennio. Sono diverse le occasioni in cui il presidente si è fatto accompagnare a eventi pubblici dal capo di stato maggiore Saïd Chanegriha – dall’inaugurazione del nuovo stadio alla visita alla fiera dell’olio di girasole. Il forte connubio tra politica ed esercito è stato dunque sotto gli occhi di tutti».
Il mantenimento dello status quo ha generato una forte disillusione in quegli algerini che si aspettavano una svolta democratica. Il 2019 aveva segnato un record negativo di accesso alle urne (solo il trentanove per cento degli aventi diritto aveva votato). Secondo molti osservatori, è probabile che il trend dell’astensionismo si confermi anche in occasione delle elezioni di oggi, rivelando così la profonda sfiducia della popolazione nei confronti della leadership al potere.
Se la politica interna dell’Algeria si è mantenuta sui binari di sempre, quella estera ha subito degli sviluppi negli ultimi anni. Innanzitutto, tra i dossier aperti sotto la presidenza Tebboune c’è la guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. A partire da febbraio, Algeri ha continuato a sostenere il popolo palestinese sia attraverso operazioni diplomatiche che tramite l’invio di aiuti umanitari. Nella narrazione del governo algerino, la “resistenza” palestinese – concepita come scontro di liberazione dall’usurpatore – viene sovrapposta alla lotta per l’indipendenza contro la Francia.
Un secondo tavolo di dialogo è quello con la Russia. Come riportato in un report dell’Ispi, l’Algeria compra oltre il settanta per cento delle proprie armi proprio dalla Russia, e non ha condannato esplicitamente l’invasione dell’Ucraina. L’allineamento di Algeri a Mosca non fa mistero: nel 2023 il governo di Tebboune aveva espresso la volontà di entrare nei Brics, un gruppo composto, oltre che dalla Russia, anche da Brasile, India, Sudafrica e Cina, altro Paese amico in quanto principale esportatore in Algeria nel 2023 (oltre nove miliardi di dollari in dodici mesi).
Dal punto di vista economico, l’Algeria può contare sull’estrazione e sulla vendita degli idrocarburi. Il conflitto in Ucraina ha reso il Paese nordafricano un prezioso alleato commerciale per i molti governi europei che intendevano diversificare gli approvvigionamenti di gas e diminuire la dipendenza dalle forniture russe. Primo fra tutti l’Italia. A partire dal 2022 i “rapporti energetici” tra i due paesi, già in atto da vari decenni, hanno subito un incremento tale che oggi l’Algeria è passata dal terzo posto alla vetta nella lista dei nostri fornitori di gas.
Non solo: il Paese nordafricano è coinvolto nella prima fase del Piano Mattei, il progetto strategico di diplomazia, cooperazione e sviluppo tra l’Italia e diversi Stati africani promosso dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Come definito nei vertici tra Roma e Algeri di gennaio e luglio, i progetti pilota approvati dal governo italiano riguardano l’istruzione e l’agricoltura, mentre – per il momento – nel Piano non sono presenti programmi relativi agli idrocarburi e al settore delle rinnovabili.
Altro versante di conversazione tra i due Paesi è quello della cooperazione militare, presente da oltre vent’anni. Negli ultimi due anni Italia e Algeria hanno discusso in più occasioni in merito a questioni legate all’industria della difesa, ma poco si sa a riguardo. In tema di difesa, inoltre, all’inizio di febbraio il ministro degli Interni Matteo Piantedosi e il vice ministro degli Affari Esteri Edmondo Cirielli hanno siglato un patto di cooperazione che rinsalda la sinergia tra le forze dell’ordine nei due Paesi. Una nota del ministero specifica che l’obiettivo è quello di «contrastare efficacemente fenomeni transnazionali quali: traffici connessi a flussi migratori irregolari, traffico di droga e armi, criminalità informatica, reati economico-finanziari, reati ambientali e reati contro i beni culturali».
Come sostenuto da Roggero, la relazione tra il governo di Meloni e quello di Tebboune ha i connotati della Realpolitik. Dal punto di vista italiano, il profitto che può venire da una partnership commerciale pare infatti avere la meglio su una divergenza a livello di ideali politici. L’appoggio a Hamas e il “gemellaggio” con Putin da parte del Paese nordafricano risulterebbero poco rilevanti in una prospettiva di dialogo economico per l’Italia. «Un matrimonio di convenienza» dice Roggero. «Al governo interessa l’alleanza con l’Algeria per la fornitura di gas e per il commercio nell’ambito della difesa. Su questioni che riguardano la democrazia in Algeria l’Italia chiude un po’ gli occhi e non critica l’operato del partner. La molto probabile vittoria di Tebboune alle elezioni conferirebbe stabilità al Paese, consentendo così il prosieguo del dialogo con il governo Meloni».