(Dis)gustoCosa dice di noi il ritorno ciclico del trend delle gelatine

Siamo quello che mangiamo, o quello che postiamo? Cronache dei motivi per cui la colla alimentare torna periodicamente ad attirarci, tra ricettari e post su Instagram

Bompas & Parr Harrods Jelly. Courtesy of Nathan Ceddia

«Per oltre centocinquant’anni, Jell-O è stata al centro dei momenti gioiosi della famiglia, grandi e piccoli», ha affermato pochi giorni fa Tyler Parker, brand manager dei dessert dell’azienda Kraft-Heinz. «Con The Jelly Collection non stiamo solo celebrando la nostra ricca storia; le stiamo ridando vita per le famiglie di oggi».

Con queste parole il manager ha annunciato l’ultimo prodotto targato Jell-0, come si chiama il più noto preparato per gelatina d’America: una serie di poltrone dall’aspetto caramelloso che saranno disponibili su Amazon. Le sedute di gelatina sono l’ennesima manifestazione di un trend che quest’estate ha portato in auge scarpe e accessori analogamente gommosi, come i sandali in plastica trasparente che non si vedevano dagli anni Ottanta.

Ma è in cucina che la tendenza dimostra tutta la sua natura “appiccicosa” inaugurando «una nuova estetica dell’aspic», che è qui per restare. A profetizzarlo è lo storico dell’alimentazione Ken Albala in “The Great Gelatin Revival” (University of Illinois Press), una disamina dei cicli storici del gusto «durante i quali all’amore per la gelatina succedono periodi di disgusto, a volte così intenso e viscerale che intere generazioni perdono l’abilità di prepararle», avvisa lo studioso.

Bompas & Parr Jelly Parlour6. Courtesy of Ann Charlott Ommedal

In effetti le avvisaglie della prossima ondata di cibi ondeggianti non mancano. Sui social esistono gruppi come “Show Me Your Aspics” o “Aspics with threatening auras”, che presentano foto di gelatine grottesche, e che contano migliaia di iscritti. A Londra invece il trend è stato dominato dallo studio di food design Bompas & Parr, che nel 2007 ha iniziato a vendere gelatine artigianali al Borough Market di Londra per poi costruire ardite architetture in gelatina, che hanno spopolato nei catering più originali del Regno Unito.

E se uniamo il trasformismo di una sostanza “comoda”, perché si adatta a qualunque forma di stampo, all’imperativo antispreco, intuiamo come Albala possa essere nel giusto e il rilancio della gelatina una svolta imminente. Dopo la sbornia viscosa del Rinascimento, in cui l’arte di recuperare il collagene contenuto in legamenti e scarti animali fu sublimata nel virtuosismo di piatti nobili – come la gelatina di cappone, contenuta nel ricettario del 1557 di Cristoforo da Messisbugo, cuoco della corte estense di Ferrara –, la gelatina scivolò, è il caso di dirlo, nel dimenticatoio.

Finché, all’inizio del ventesimo secolo, proprio la versione chimica della gelatina, marcata Jelly-O, produsse un ricettario distribuito gratuitamente e arruolò una serie di star del cinema come testimonial. Fu un successo. Ma poi, di nuovo, dopo il trionfo negli anni Quaranta e Cinquanta, ecco l’ennesima eclisse collagenica. «Dalla fine degli anni Sessanta, con la generazione hippie, la gelatina iniziò il suo precipitoso declino, perché la gente rifiutava colori e aromi artificiali», ricorda Albala.

Bompas & Parr Buckingham Jelly. Courtesy of Ann Charlott Ommedal

Proprio per questo, nella predisposizione odierna dei giovani a consumare carne creata in laboratorio, lo studioso intravede un’apertura a piatti di natura “industriale”: la gelatina sta tornando di moda, anche se oggi essa deriva meno dalle polverine chimiche made in Usa che dal vero recupero di tutti i pezzi di un animale, in osservanza della tendenza “nose to tail”, che, adesso come nel Quattrocento, impone di non sprecare cibo.

Al di là della ciclicità del gusto, insomma, questa “colla” alimentare torna ad attirarci perché offre una presentazione nuova per ingredienti consueti. Nei citati gruppi sotto gelatina finisce di tutto: dalle verdure al polpo. E non è escluso che il ritrovato gradimento dipenda anche dalla recente diffusione su Instagram di immagini che hanno più a che fare con l’estetica che con l’alimentazione, e che quindi rivalutano un alimento che privilegia la presentazione rispetto all’esperienza sensoriale. Ormai siamo tutti pornografi del cibo, gourmet che degustano, ma non mangiano.

Forse decenni fa, quando Jelly-O ha conquistato per la prima volta le famiglie americane, il suo consumo era abbinato al divertimento e allo stupore di creare un piatto inaspettato. Oggi, con la sua costante esibizione sui social, il jelly rischia di far “trasparire” una solo apparente briosità, una gioia che va condivisa anche se in realtà non esiste, un appagamento vitale che contrasta con l’inconsistenza delle sue articolazioni collose.  In altre parole: la gelatina per natura non può sfamare, eppure noi la usiamo per raccontare online il nostro esibito consumo di esperienze entusiasmanti. Finendo così per rivelare, con questa sostanza impalpabile, l’insostenibile leggerezza del nostro falso (ben)essere.

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