Pensandoci, la coincidenza un po’ mi sorprende: visito l’Hotel Parco dei Principi mercoledì 18 agosto 2021, esattamente sessant’anni dopo il sopralluogo di Gio Ponti, autore del progetto, che qui spese i giorni dal 13 al 19 agosto 1961 a verificare i lavori in corso dell’albergo in costruzione sulla falesia tufacea di Sorrento, il gigantesco gradino che precipita per settanta metri verso il mare verde e blu. L’architetto aveva appuntato la data – preciso, elegante, rigoroso – su dodici fogli numerati a uno a uno con le note per le opere da completare: il disegno delle corone di fastigio in facciata, i mobili e la loro disposizione, con le misure di cantonali, mensole e panche, l’intonaco «grossissimo» per le pareti, la posizione delle tende… L’hotel avrebbe aperto l’anno seguente, l’11 aprile del 1962, punta di diamante di un’Italia in pieno boom economico.
Oggi, 18 agosto, è giorno di calura intensa: nuvole di umidità all’orizzonte dilavano il blu di cielo e mare in un azzurro da gouaches ottocentesche, quelle delle vedute del Vesuvio con minuscole figure in primo piano che, in abiti pastorali, ammirano il Grande Dormiente. Si respira un’aria immutabile da Grand Tour, che nemmeno il traffico ferragostano, vorace e feroce, riesce a smorzare. Arrivo al cancello dell’Hotel Parco dei Principi: sono in cerca dell’opera totale di Gio Ponti. Un luogo che il maestro progettò dalla A alla Z e che è sopravvissuto intatto, invariato. Un unicum. Sono giunta qui inseguendo una predilezione che ho da quando ero bambina: il colore blu, in tutte le sue declinazioni, mi attrae irresistibilmente. Con la forza di un incantesimo è stato il blu a indicarmi la meta: Gio Ponti ne inventò uno – il Blu Ponti, in due sfumature – proprio per questo luogo. A Milano, sullo scaffale di una libreria specializzata in architettura avevo visto, esposte come decorazione, le piastrelle in maiolica Blu Ponti che l’architetto progettò per rivestire i pavimenti del Parco dei Principi. Trentatré differenti disegni che Ponti creò personalmente, a uno a uno, astratti o naturalistici: foglie, lune, pois, losanghe, strisce in verticale, in diagonale, triangoli, piramidi, sfere, stelle, eclissi. Segni di un codice figurativo e cromatico con cui decorare il mondo in blu, azzurro e bianco. Ho iniziato a seguire quelle tracce per capire come un colore divenisse interprete di un luogo o come, viceversa, da un luogo nascesse un colore che prima non esisteva, assurgendone a simbolo. Quesiti che mi hanno portato davanti al cancello di via Bernardino Rota 44, a Sorrento.
È un cancello nobiliare, sormontato dalla corona borbonica, con l’arcata e l’iscrizione «Poggio Siracusa», il nome assegnato dalla storia a questo impareggiabile tratto di costa che nel 1959 l’ingegnere Roberto Fernandes, instancabile imprenditore edile napoletano (oggi si direbbe sviluppatore), riuscì ad acquistare integro, prima che venisse spezzettato tra piccoli speculatori. Fernandes aveva le spalle grosse e tanta voglia di costruire un Paese che non c’era, l’Italia del dopoguerra. Più tardi Gio Ponti lo definì «un uomo che ha il genio di scoprire le qualità di ciò che tutti conoscono e di cui nessuno si accorge» (in Domus, n. 415/1964). Fernandes visitò nell’autunno del 1958 la tenuta di Poggio Siracusa, che racchiudeva un parco botanico secolare e una serie di edifici storici sontuosi, allora decaduti e spogliati. Ed ecco l’idea: quel sublime tratto di penisola sorrentina, fino ad allora riservato a nobili e teste coronate, e da quegli stessi abbandonato e negletto per l’evolversi della storia, doveva essere trasformato in un luogo per viaggiatori internazionali. Certo, non per tutti, ma aperto al mondo.
Il turismo per Fernandes era una macchina di progresso sociale ed economico che stava accendendo potenti motori – e Ponti non la pensava diversamente, avendolo definito «un gesto di tutti, motivo e necessità d’educazione» nel suo libro-manifesto (o libro-confessione/ professione) Amate l’architettura, del 1957. Fernandes, per questo nuovo pezzo di Italia che immaginava nei suoi pensieri, ebbe la seconda, grande intuizione: volle Gio Ponti, firma riconosciuta del progetto italiano, instancabile sperimentatore, poeta dell’architettura e appassionato funzionalista, umanista dell’abitare – impossibile da incasellare in una sola definizione. Mise tutto in mano a lui. Carta bianca; anzi, blu.
Raccontano che Roberto Fernandes abbia portato Ponti sul promontorio di Poggio Siracusa nel 1959 e che da quella vista l’architetto abbia elaborato il pensiero chiave per il progetto: «In un giorno in cui tutto era azzurro, per nebbia di solare calura: cielo azzurro, mare azzurro, lontani profili azzurri all’orizzonte, di Capri, di Ischia, di Procida, di Posillipo e di terra, del Vesuvio… disse l’architetto: sia azzurra e bianca fuori, l’architettura, e bianca e azzurra dentro». Ponti, alle soglie dei settant’anni, fu felice dell’incarico perché amava il Mediterraneo. Negli anni Quaranta ne aveva studiato la cultura materiale e progettuale insieme all’amico architetto Bernard Rudofsky; riteneva che quella mediterranea fosse il punto di partenza ideale per un’architettura all’italiana. Poi amava misurarsi con la storia, un confronto che non lo aveva mai spaventato: niente di nostalgico («amate gli architetti moderni – non ci sono altri architetti per voi», scriveva), un dialogo intelligente da cui si può solo uscire arricchiti. E al Poggio Siracusa di storia ce n’era, anche tanta.
Oltrepassato il cancello, percorro il viale che scende e curva leggermente. Non faccio in tempo a chiedermi dove conduce: devo alzare gli occhi afferrata da prepotenti presenze. Le piante, gli alberi. Che improvvisamente mi circondano, affollano il breve orizzonte e lo spazio di cielo, si alzano, si gonfiano di foglie, luce, ombra. Forme note, alcune; altre meno: palme di tante varietà e araucarie viste in viaggi lontani nei pressi dell’Equatore. Ma anche pini, ippocastani, cedri e platani. Due ginkgo biloba, maschio e femmina; il primo svettante, dai rami allargati come braccia aperte; la femmina più minuta, leggermente inclinata, quasi a sorvegliarlo. Grandezze per forza antiche, gloriose di sole e di vita. Come se avessi attraversato una quinta di pesante velluto, l’aria che respiro improvvisamente cambia, si addensano profumi, aromi, ossigeno, salsedine. Mi rendo conto di entrare in un santuario vegetale, un monumento naturale che nasconde agli occhi l’edificio bianco di Ponti, laggiù, verso il bordo della falesia. Mi inoltro nel verde e, passo dopo passo, si risveglia una storia lontana: il terreno era dei gesuiti, ma a fine Settecento venne acquisito da Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, che lo suddivise tra l’ordine dei francescani e due nobili di corte, uno dei quali era Paolo Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa. Costui, nella sua porzione, fece edificare nel 1792 una villa, detta Poggio Siracusa, attorniata da un parco di 27.000 metri quadrati, in cui ordinò di porre a dimora rari esemplari arborei, come era costume nelle residenze borboniche. La nobiltà di corte qui si ritrovava per soggiorni di delizia, lontana dalle strette maglie dell’ufficialità imposta nella capitale.
Al periodo d’oro di Paolo Leopoldo seguì l’abbandono, quindi di nuovo lo sfarzo nel 1885 con l’acquisto della tenuta da parte della principessa Maria Sturdza e del principe Costantino Cortchakow, cugino di Nicola II Romanov, sfortunato zar di tutte le Russie. Nuovi e sontuosi edifici vennero eretti, altre piante pregiate messe a dimora e costantemente curate da uno staff di dieci giardinieri, allestite decorazioni per feste e ritrovi mondani. All’interno della villa, nella camera da letto della principessa, nel 1888 il pittore napoletano Filippo Palizzi dipinse un pavimento in maiolica con petali di rose rosa, sparsi qui e là. Un’opera di illusione «delicatissima» (come la definì lo stesso Ponti), di cui si innamorò anche donna Franca Florio, che a sua volta lo fece realizzare per la sua camera da letto a Palermo. Il luccicante mondo di nobiltà e ricchezza di fine Ottocento faceva a gara per essere su questi lidi. I principi Cortchakow avviarono anche la costruzione di una dacia (meglio definita come un castello in stile gotico-inglese) a strapiombo sul mare, destinata al soggiorno dello zar. Il quale, però, non giunse mai a Sorrento. Non fece in tempo. Nel 1917 la rivoluzione russa spazzò via, oltre alla sua vita, anche la ricchezza dei Cortchakow. A Poggio Siracusa tornò la desolazione.
Quando Roberto Fernandes ne acquisì la proprietà, mantenne intatta la villa borbonica e individuò la sede del futuro hotel nella dacia mai completata, situata a lato della villa. Il compito di Ponti iniziava da questo incompiuto, che fotografie d’epoca documentano come un edificio contraddistinto da alte arcate aperte sul mare. La verticalità fu d’ispirazione per l’architetto, che mantenne la base di due piani già costruita nel tufo – dove si trovano ancora oggi alcune delle stanze con un delizioso terrazzo in pietra a strapiombo sul mare. Da qui innalzò il prospetto principale, su quattro piani. Bianco, razionale, pulito. Il confronto tra l’antica dacia e il moderno hotel, che su di essa si innestò, mette in luce come Ponti volle mantenere la composizione originaria dei volumi, per non tradire lo spirito di quell’antica presenza. La visione perfetta del prospetto principale dell’hotel si coglie frontalmente, dal mare o, lateralmente, affacciandosi lungo la costa. Ma per chi, come me, arriva dal viale del parco, l’hotel si svela pian piano attraverso la facciata opposta, quella di terra, ugualmente articolata e armonica, ma meno rigorosa dell’altra a mare. La scandiscono logge e tribunette aggettanti, alcune con qualche scarto nell’allineamento, giusto per movimentarne la percezione.
Varco l’ingresso ed entro nella hall: eccomi, inconsapevolmente proiettata verso il mare che brilla al fondo della sala. Gli spazi sono ampi e continui, l’atmosfera è come impregnata di blu e azzurro, la luce esterna invade ogni angolo come acqua che tracima da un contenitore. Sembra una casualità, ma questo effetto non è che il risultato della perfetta orchestrazione di partizioni, aperture e vetrate. Mi trovo, all’improvviso, immersa nel principio pontiano dello «spazio senza volume», dell’architettura «trasparente e cristallina» cui il maestro aspirava. Mi guardo intorno e noto che tutto è orientato verso l’esterno: il banco della reception, i divani e le poltrone ben distanziati, i tavoli del ristorante, la terrazza. Il mio sguardo è attirato in coni visivi che esaltano il genius loci: il mare, il parco, il cielo.
Sono colta di sorpresa dagli arredi, dai colori, dalle finiture. Tutto sembra perfetto, nuovo; e tutto immutato. L’impressione è di fare un salto nel tempo, anzi, fuori dal tempo: gli anni Sessanta, con il loro entusiasmo, la loro joie de vivre, danzano intorno a me, come categoria e non come epoca storica. Merito della ristrutturazione rispettosa e filologica dell’albergo, oggi di proprietà di Teresa Naldi, nipote dell’ingegnere Fernandes; i lavori si sono svolti dal 1999 al 2004 sotto la guida dell’architetto Fabrizio Mautone, che ha ripulito la struttura da interventi estranei, recuperando fedelmente tutti gli arredi e successivamente ricavando, negli spazi dell’hotel, una serie di piccoli padiglioni illustrativi in cui il lavoro di Ponti è analizzato. Un’opera nel complesso meritoria, che ha restituito il progetto totale di Ponti in modo assai fedele.
Tratto da “I luoghi del design in Italia” (Baldini+Castoldi) di Antonella Galli e Pierluigi Masini, pp.304, 22€