La mia amica F. ancora si ricorda della salsa barbecue. Sono passati più di tre anni da quel trasloco, dalla sua incredulità per la quantità di roba da buttare che c’era in casa mia, ma la salsa barbecue ha un posto speciale nella leggenda privata della mia capacità di comprare roba che andrà per forza buttata.
Cosa te ne fai delle salse, che non cucini, e se ordini carne già pronta la salsa te la manda il ristorante? Cosa ci fai con dodici boccioni di salsa barbecue scaduti, pensavi di aprire una mensa di grigliate sul terrazzino della cucina? La risposta, F. lo sapeva, era nei punti.
C’è stato un periodo in cui l’Esselunga triplicava i punti fragola sulle confezioni di salsa barbecue e io – tossicodipendente dei punti che a trent’anni spendevo più di quel che guadagnavo perché i punti American Express si potevano convertire in biglietti aerei per New York e sì va bene avrai comprato alcune decine di migliaia di euro di roba che non ti serviva ma sei andata gratis in business e sei o non sei un’acuta affarista – io figurarsi se non compravo quintali di salsa.
Il periodo della salsa barbecue, lo so perché ho da sempre la stessa casella mail per l’Esselunga, e non cancello mai niente, era il 2012. Quindi, diranno i miei piccoli lettori, questo è un articolo sull’accumulo di salse oltre che di mail e sul fatto che tenevi in cucina salse vecchie di otto anni finché non è venuta la povera F. a buttarle? Non proprio.
Non so mai i prezzi di niente. Se fossi attenta ai prezzi di ciò che compro come sono attenta all’accumulo di punti, a quest’ora sarei ricca, e invece è andata così: che non riesco a memorizzare i prezzi. Per dire: tempo fa m’è passato davanti un tweet in cui qualcuno diceva quanto aveva pagato il caffè al bar, non ricordo la cifra ma la riteneva altissima e concludeva che presto la colazione al bar sarebbe diventata un lusso.
Quella mattina ho per la prima volta ascoltato la cifra che mi diceva la cassiera prima di appoggiare la carta di credito all’accrocco tramite il quale ogni mattina pago brioche e cappuccino, e poi ho passato la colazione a messaggiare tutte le mie amiche: come sarebbe, quattro euro e dieci. Quattro euro e dieci sono millecinquecento euro l’anno, m’indignavo dopo aver per la prima volta dato un senso all’app della calcolatrice nel telefono. Certo che è un lusso, com’è possibile che i bar siano pieni, è un paese di ricchi, non si può più viaggiare perché ormai è piena pure la executive (più invecchio, più sembro Silvio).
Quindi, diranno i miei piccoli lettori, questo è un articolo su di te che vivi da ricca pur non essendolo, perfetta cittadina d’un paese che vive da ricco pur non essendolo, su una repubblica fondata sui soldi delle generazioni precedenti, su quel carattere italiano che è il vivere al di sopra delle proprie possibilità? Non proprio. (E comunque non sono sicura sia un carattere italiano: gli americani s’indebitano con le carte di credito peggio di quanto facciamo noi con gli usurai acciocché nostra figlia abbia un banchetto nuziale da sogno).
Non so mai i prezzi di niente, e quindi quando – spesso – mi passano davanti penzierini social sulla shrinkflation (mi scuso per l’orrore del lemma) non so mai se siano paranoie o realtà. Dicesi shrinkflation (crasi di restringimento e inflazione) quell’aumento dei prezzi per cui la stessa confezione di biscotti la paghi la stessa cifra, ma è la stessa solo apparentemente e dentro ci sono meno biscotti (quando eravamo madrelingua italiani, la chiamavamo «truffa»: purtroppo Totò è morto e TikTok è vivo).
Una delle numerose mattine in cui pur di non scrivere farei proprio qualunque cosa, però, mi passa davanti un post che dice che gli stipendi sono fermi ma il bucato sta diventando un lusso, e lo dice sotto una foto del Dixan sullo scaffale del supermercato. Sulla confezione c’è scritto che basta per 52 lavaggi, e il cartellino dice che il prezzo è 11 euro e mezzo. In piccolo, come in ogni supermercato, c’è il costo al litro: 4 e 91. Quindi – seconda volta nella vita che uso la app calcolatrice – dovrebbero essere due litri e tre.
Questi numeri naturalmente non mi dicono niente, potrei obiettare a 52 (che ne sai tu di quanto detersivo uso io, sarebbe come scrivere sul barattolo di parmigiano da 180 grammi «condisce quattro piatti di pasta»: a casa mia ne condisce uno) ma del resto nulla so: quanto dovrebbe costare al litro? Quanto costava prima?
È allora che mi ricordo d’una giovinezza da spettatrice di “Mi manda Lubrano” (non è vero, non l’ho mai guardato in vita mia, ma “Mi manda Lubrano” era così profondamente nella cultura popolare che l’hai visto anche se non l’hai visto), e decido di sfruttare una casella di posta con due decenni di spese dell’Esselunga a domicilio.
Ci sono tutti i detersivi della mia vita, in quella casella, non solo perché figurarsi se porto a casa da sola un pesante boccione di detersivo, ma anche per una nevrosi analoga a quella dei punti: quella delle consegne gratuite. Spessissimo l’Esselunga consegna gratis se compri cinque Dixan, e figuratevi se io non risparmio sette euro di consegna spendendone cinquanta di Dixan. La mia economia domestica non ne beneficia, in compenso a casa mia ci sono abbastanza detersivi da tenere pulite le lenzuola d’un collegio.
Cerco “Dixan” nella casella di posta, e mi si svela un mondo. A ottobre del 2011, mi confermano l’acquisto d’un Dixan che costa 8 euro e 29. La descrizione è questa: «28 lavaggi, flacone 1848 ml». Quindi tredici anni dopo si fanno cinquantadue lavaggi con poco più del detersivo con cui tredici anni prima se ne facevano ventotto. Sarà che siamo diventate tutte ecologiste e usiamo meno detersivo.
Dicembre 2017, consegna d’un Dixan a 7 euro e 49 a boccione (meno di sei anni prima: sarà stato in offerta?) descritto come «28+2 lavaggi, 1,950 litri». Era sette anni fa, continuavamo a usare le dosi da non ecologiste, direi. È, questa del 2017, l’ultima spesa in cui la dicitura del Dixan riporta quanto ce ne sia nel boccione, dando alla clientela modo di fare un conto vero e non uno basato sull’arbitrario numero di lavaggi.
Da lì in poi, niente litri, niente millilitri, solo «27 lavaggi», «27+2» e simili fantasie. È a quel punto che, percependomi inviata sul campo, decido di abbandonare la ricerca tra le vecchie mail, percorrere due corridoi (quel che in giornalistese si chiama: consumare la suola delle scarpe) e arrivare fino alla lavanderia di casa.
(Se pensate che questa non sia un’inchiesta rischiosa, eravate assenti negli anni in cui Beppe Grillo si faceva scrivere i testi da Michele Serra, e diceva cose sensate come: puoi dire tutto quel che vuoi su Andreotti, ma guai a te se tocchi Coccolino).
Nel luogo dell’inchiesta, dunque, la stanza della lavatrice, ho un boccione da un litro e 350, con indicazione «22 lavaggi»: ero assente quando si facevano le proporzioni ma secondo me non torna col rapporto contenuto/lavaggi di sette o di tredici anni fa. Ma ne ho anche due da 990 millilitri, che forse non si possono neanche più definire «boccioni», sono praticamente delle mignon da viaggio. Ma poi non è poco furbo, novecentonovanta? Quelle cifre che non sembrano tonde vanno bene per i prezzi, quando mi fai pagare nove euro e novanta e m’illudo che non siano dieci, ma se mi dici che questo detersivo è meno d’un litro io piccola massaia mica sono contenta, no?
A meno che non sia una sofisticata manovra per convincermi che quello da meno d’un litro posso portarlo in borsetta, non ho più bisogno d’ordinare la spesa online, e spariranno le prove: non rimarranno più mail di conferma con cui verificare, anche tra cent’anni, che la proporzione tra detersivo comprato e numero di lavaggi per cui usarlo cambia con più velocità delle collezioni primavera-estate. Dopo la fast fashion, il fast laundering. Che non è un bel sentire, ma è comunque meno brutto di shrinkflation.