L’illusione populista Bello il referendum sulla cittadinanza, ma attenti al papocchio anti politico

La valanga di firme sul quesito sulla cittadinanza è già stata infarcita da inni alla purezza del popolo contro le élite corrotte. Col rischio, poi, di fare un gran mischione con le altre richieste referendarie, come l’insensata vendetta fuori tempo massimo della Cgil sul Jobs Act

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Sono state raccolte le firme per il referendum sulla cittadinanza, bene, anzi benissimo. Una legittima battaglia per abbassare da dieci a cinque gli anni necessari per chiedere la cittadinanza italiana. Vedremo se a febbraio la Consulta ammetterà questo e gli altri quesiti su Jobs Act e Autonomia differenziata. Però già adesso questa iniziativa viene infarcita da fastidiosi inni girotondini alla società civile, alla purezza del popolo versus l’orrore della società politica, alla democrazia referendaria come risposta civile alla pusillanimità del Parlamento, ai cittadini perbene contro i corrotti, alla Cultura contro il Potere. Viva il popolo, «è la gente che fa la storia» degregoreggiava ieri Repubblica.

Si potrebbe arrivare per questa via all’anticamera del populismo descritto dal politologo Cas Mudde come «un’ideologia che considera la società come suddivisa in due gruppi omogenei e antagonisti, il popolo puro contro l’élite corrotta».

Era un tratto dei girotondi, e forse quello decisivo checché ne dica Paolo Flores d’Arcais che oggi di quel movimento esalta l’aspetto “azionista” più che quello proto-grillino, il che è solo parzialmente vero: da Nanni Moretti al vaffa il passo fu breve.

Questo rinnovato pasolinismo rivestito di populismo e incarnato da artisti famosi incrocia un certo umore borghese – altro che il sottoproletariato di PPP – tradizionalmente prono al potere quando gli serve e altrettanto pronto a fare la morale al mondo intero quando gli gira: e per farla breve c’è aria di “ceti medi riflessivi” come li chiamava Paul Ginsborg, teorico appunto del girotondismo.

Ma poi, quali ceti medi? Ghali è più stimato di Mario Draghi, e Zerocalcare conta più di Elly Schlein, a questo siamo arrivati. Almeno Pasolini se la doveva vedere con Amendola e Montanelli.

I follower possono più delle sezioni, che politica è? Ma gli artisti fanno bene a muoversi, anzi, di solito vengono rimproverati perché quando la casa brucia non ci sono mai. Il problema semmai è la retorica populista che sogna le barricate sotto forma di girotondi e referendum, che per carità è democrazia purché il tutto non venga elevato a mistica democraticista, che è un’altra cosa: di solito è l’anticamera della barbarie, se non il suo lievito.

Già, perché è facile fare politica con un clic, oggi la raccolta delle firme è come una petizione su Change.org, non ci vuole poi molto a fare cinquecentomila firme su Internet, nessuno s’illuda che l’Italia s’è desta, e povero Marco Pannella che si sbatteva ai tavoli di legno davanti ai mercati rionali con le donne con la spesa che passavano e chiedevano «ma che è?» e lui gridava col megafono le ragioni del No contro chi voleva abolire il divorzio.

Tempi duri, quelli, quando davvero il referendum era l’arma popolare per impedire gli oscurantismi e le ipocrisie dei benpensanti, quando a piazza del Popolo salivano sullo stesso palco Ferruccio Parri, Giuseppe Saragat, Pietro Nanni, Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi – che si detestavano tra di loro ma stavano insieme in piazza per il divorzio, mica contro il Jobs act, il referendum di Maurizio Landini: un mero regolamento di conti tra Cgil e Matteo Renzi, una cosa priva di rilevo pratico, altro che il divorzio o l’aborto.

E anche l’idea della spallata referendaria non è che sia esattamente la via maestra per buttare giù il governo, specie se dopo un’eventuale vittoria dei Sì la sinistra o campo largo (che poi tanto largo non è, quel furbacchione di Giuseppe Conte si vede e non si vede: come al solito, cadrà tutto in testa al Partito democratico) scoprisse di non avere in mano buone carte da giocare alle elezioni. A patto poi di vincerli, i referendum, che come al solito dovranno battere due avversari: l’astensionismo e la maggioranza di governo, che non è escluso che dirà di andare al mare. Complice anche il mischione di argomenti diversi, il rischio di perdere, cioè di non portare alle urne la metà più uno degli elettori, è molto alto e il rischio è di rafforzare Giorgia Meloni.

A quel punto il girotondo vero lo faranno lei e i suoi intorno alla mitica società civile, quella “pura”, zerocalcariana, che dagli studi di Zoro e Tagadà se la prenderà con Matteo Renzi – un modo lo si troverà sempre – mentre dalle terrazze salirà un coro contro la maledetta politica, quella che dà ai “puri” quasi sempre torto, con grave danno per tutti, e loro non capiscono perché.

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