Il maladetto fioreMercanti e banchieri non vanno in Paradiso, parola di Dante

In “Il campo dei miracoli” (Marsilio), Luigino Bruni ripercorre alcuni passi delle opere di Dante mostrando come l'illustre poeta non avesse cognizione dei cambiamenti economici in atto nella sua epoca, profondamente convinto dell'equivalenza di matrice cristiana tra il denaro e il peccato

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Dante è stato un autore immenso per molte cose, forse il più grande poeta di tutti, e non solo in Europa. Ma la sua grandezza infinita non emerge quando scrive di economia: come sosteneva lo storico Ernesto Sestan, «egli è sordo completamente […] al senso dell’economico». Pur vicino al movimento francescano, non seguì la linea di Pietro Ulivi e degli altri frati teologi-economisti che, osservando i mercanti nelle città, furono tra i primi a comprendere che non tutta la mercatura era incivile, che non tutti i profitti erano cattivi, che non ogni prestito a interesse era usuraio. 

Dante resta invece legato ad Aristotele, e così non entra nel Trecento e nella moderna dimensione economica ed etica dell’Umanesimo, dove anche il commercio fu incivilimento e virtù cristiana. In questo, Dante non ha aiutato l’Italia e il mondo cattolico a capire il mondo nuovo che stava nascendo dallo stesso cristianesimo, perché è stata la sua visione critica verso il mercato a prevalere nell’ethos della Controriforma.

Dante ha guardato i mercanti con occhio aristocratico, serbando nel cuore la nostalgia di una Fiorenza nobile perché non ancora commerciale. I novatores, divenuti ricchi grazie ai commerci e alle banche, ma non abbastanza civili, sono per lui la principale causa della decadenza della sua città e dell’abbandono della «cortesia e valor»: «La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

Quando compone il suo capolavoro, Firenze è stata oramai occupata dalle arti, e la politica dominata dai mercadanti, e così «produce e spande il maladetto fiore», il fiorino, che stava corrompendo costumi e virtù di mezza Europa. La sua Commedia è invece pervasa dalla lode per il mondo agricolo e per i valori di quella civiltà, per l’ordine garantito dalle virtù feudali. 

Non troviamo neanche un mercante nel Paradiso, e quando Cacciaguida, suo avo, loderà Cangrande della Scala, rampollo di una famiglia di mercanti, lo farà proprio per «la sua virtute / in non curar d’argento né d’affanni». Ormai i suoi fiorentini erano dediti alla banca e al commercio, e quindi non più a onore e virtù: «tal fatto è fiorentino e cambia e merca». Dante mette gli usurai nell’Inferno, tra i violenti «contro Dio, natura e arte», perché sommano perfettamente questa triplice violenza: l’usura è negazione della legge di Dio, è contro natura ed è negazione dell’antica arte mercatoria. 

Li trova seduti per terra, come quando in vita si sedevano sul pavimento delle piazze di Firenze, sopra il tappeto rosso che li contraddistingueva. Ora il pavimento è diventato sabbia infuocata, e le loro mani, impiegate senza sosta in vita per maneggiare denaro e ordire inganni, sono ora usate per difendersi dai lapilli di fuoco. Fra loro Dante incontra, insieme ad altri usurai fiorentini, Rinaldo degli Scrovegni, famoso usuraio padovano, padre di Enrico, il committente di Giotto.

La visione che Dante ha della mercatura e della ricchezza in rapporto alla virtù è ancora più articolata e argomentata nel Convivio: «Non vertù ma mercatantia». I mercanti vengono chiamati miseri: «Quanta paura è quella di colui che appo sé sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegliando ma dormendo, non pur di perdere l’avere ma la persona per l’avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo vanno». La sola virtù della pecunia sta nel privarsene, ma in vita: «Vertude […] che non può essere possedendo quelle [ricchezze], ma quelle lasciando di possedere […] Allora è buona la pecunia, quando, transmutata ne li altri per uso di larghezza, più non si possiede».

Diversamente da sant’Agostino, per l’autore fiorentino la filantropia dei ricchi mercanti e le donazioni in punto di morte degli usurai non bastano per salvarli: restano nell’inferno, quei loro doni non lucrano neanche il purgatorio. La ricchezza malamente guadagnata non riscatta la vita nemmeno donandola, alla fine, interamente in beneficenza. Qui c’è tutto Boezio, con Seneca e i Padri della Chiesa: quella di Dante è una visione dell’economia e della banca tipica del primo millennio, di un mondo ancora statico dove profitti e interessi erano solo forme di rendite, ricchezza che non nasceva dal lavoro e dalla virtù. 

La critica morale medievale all’usura è anche espressione della critica al reddito che nasce dal potere e non dal lavoro, cioè, appunto, alle rendite; e anche se la Chiesa viveva soprattutto di queste, alcuni teologi cristiani riuscivano comunque a capire che nella rendita c’era qualcosa di moralmente illecito: se ne accorgevano poco, o affatto, in relazione alla rendita sulle terre, ai censi e alla struttura feudale della società (basata su rapporti di estrazione di rendite), ma non avevano dubbi nel caso del denaro e quindi dell’usura.

Il mondo economico e sociale in realtà stava già cambiando, ma Dante non lo vedeva o non lo voleva vedere. Eppure anche in un terreno, quello dell’economia, dove il suo genio non si espresse in pienezza, è stato capace di sorprenderci con un colpo di scena – gli autori grandissimi sono più grandi anche delle proprie ideologie. Quella moneta, disprezzata e trattata come icona degli usurai e del demonio, la troviamo infine, nel Paradiso, utilizzata addirittura come metafora della fede, come immagine quindi del bene più grande.

Nel dialogo tra Dante e San Pietro leggiamo: «“Assai bene è trascorsa / d’esta moneta già la lega e ’l peso; / ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa”. / Ond’io: “Sì ho, sì lucida e sì tonda, / che nel suo conio nulla mi s’inforsa”». Torna qui la tradizione medioevale del Christus monetarius, del Signore Gesù visto come un esperto cambiavalute capace di riconoscere la vera fede (moneta) da quella falsa, e poi fare il giusto discernimento.

 

 

 

 

 

 

 

Tratto da “Il campo dei miracoli. Viaggio economico nei capolavori della letteratura” (Marsilio) di Luigino Bruni, pp. 160, 16 €

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