Dodici euro lordi per un turno dodici ore, validi come «indennità di pronto soccorso». Centoventi euro se si fa la guardia notturna. Anche leggendo gli scarni «incentivi» economici previsti nel contratto nazionale dei medici, si capisce perché i pronto soccorso siano diventati ormai quella trincea della sanità pubblica italiana in cui nessuno vuole più lavorare. Tra aggressioni frequenti, turni massacranti e il rischio continuo di denunce, «quei dodici euro inseriti nel contratto sembrano quasi una presa in giro per chi deve esporsi a tutto questo», ammette Pierino Di Silverio, segretario nazionale della Anaao Assomed, l’associazione dei medici e dei dirigenti sanitari italiani.
Il tutto per uno stipendio di circa duemilaseicento euro netti al mese per un neo assunto. Dopo quindici anni, se va bene, si arriva a quattromilacinquecento euro. Con prospettive di carriera minime e poco tempo a disposizione per svolgere visite a pagamento. Risultato: mancano quattromilacinquecento medici e circa diecimila infermieri nei pronto soccorso di tutta Italia. Se si considera che in Italia esistono quattromilatrecentododici medici specializzati in emergenza-urgenza, di fatto servirebbe raddoppiare il numero.
Ma anche gli studenti di medicina ormai si tengono alla larga questi reparti, tant’è che nel 2023 è andato deserto il settantaquattro per cento delle borse nelle scuole di specializzazione. Il ministero della Salute ha lanciato da poco la campagna “#noisalviamovite” per convincere i neolaureati a iscriversi alle scuole di specializzazione in Medicina di emergenza-urgenza, aggiungendo centoquarantaquattro borse in più rispetto allo scorso anno. Ma se non si aumentano le retribuzioni, circa 1milleseicentocinquanta euro lordi al mese mai alzati dal 2007, difficilmente la campagna social avrà i suoi effetti.
Così le carenze negli organici aumentano, il personale è sempre meno. «E quel poco personale che c’è va in burnout, rischia di essere aggredito, viene continuamente denunciato. Se a questo si aggiunge il fatto che si guadagna poco e non si fa carriera, non dobbiamo meravigliarci se in tanti poi se ne vanno alla ricerca di condizioni di lavoro migliori», dice Di Silverio.
Nel 2023, milletrentatré medici hanno lasciato i pronto soccorso, a fronte di cinquecentosessantasette nuovi ingressi. Il che vuol dire che il quarantacinque per cento di chi ha lasciato non è stato sostituito. Così gestire i turni diventa un’impresa quasi impossibile. Per tappare i buchi, spesso sono gli stessi primari a coprire le ore scoperte, si ricorre ai medici di altri reparti, si usano gli specializzandi e si usano i famosi «medici a gettone», ingaggiati tramite le cooperative anche a mille-milleduecento euro al giorno. Il che non fa che peggiorare l’organizzazione del lavoro, per cui «il paziente sa quando entra e non sa quando esce», dice Di Silverio. Nel 2002, secondo il Tribunale dei diritti del malato, trecentomila persone almeno hanno aspettato tre giorni prima di avere un posto letto. Un circolo vizioso, che ormai ha portato alla rottura del rapporto di fiducia tra medici e pazienti. Tanto da dover fare ricorso all’esercito, come stabilito dal prefetto di Vibo Valentia, per proteggere gli operatori sanitari.
Il governo ha provato a tamponare la carenza di personale introducendo, nel “decreto bollette” di marzo 2024, la possibilità di pagare i medici di altri reparti cento euro l’ora in più per le prestazioni nei pronto soccorso oltre il turno di lavoro. In alcune regioni si è messo pure mano al portafoglio alzando di qualche euro le indennità. In Piemonte, lo scorso maggio i sindacati hanno siglato un accordo per alzare l’indennità di pronto soccorso da dodici a sedici euro. Stessa cosa hanno fatto nel Lazio. Mentre la Lombardia ha decretato lo stop ai «gettonisti» gestiti dalle cooperative, finora costati ventisette milioni di euro l’anno alle casse regionali, per creare un albo di liberi professionisti (specializzandi compresi) da assegnare ai pronto soccorso, con compensi da sessanta a ottanta euro lordi. E i sindacati stanno provando ad alzare le indennità anche in Calabria, dove la Regione ha annunciato da poco l’arrivo di altri novanta medici da Cuba, in aggiunta agli oltre cento arrivati già nel 2023 per tamponare la cronica carenza di personale soprattutto nei pronto soccorso della regione.
«Il problema è che il nostro contratto non dà neanche la possibilità di fare carriera in pronto soccorso», spiega Di Silverio. «Le prospettive non sono gratificanti né economicamente né professionalmente. Nasci medico di pronto soccorso, muori medico di pronto soccorso. E questo ha provocato il burnout di più del sessantacinque per cento degli operatori».
A inizio 2024 è stato rinnovato, in ritardo, il contratto 2019-2021 dei medici, calcolando circa duecentocinquanta euro di arretrati al mese (per recuperare almeno in parte l’inflazione), con un finanziamento di 140 milioni dedicati solo alle indennità di pronto soccorso. E la scorsa estate è partita a rilento la stagione del rinnovo 2022-2024, ma si aspetteranno le risorse che il governo inserirà nella legge di bilancio per cominciare a fare qualche previsione sugli aumenti.
«Il nostro è un contratto ingessato perché si rifà alla pubblica amministrazione», spiega Di Silverio. «Siamo trattati come qualunque altro impiegato pubblico, con scatti ogni cinque anni che non garantiscono crescita economica e professionale. E nei pronto soccorso, questa crescita è ancora più residuale perché non è un reparto ma un servizio. Va cambiato del tutto il contratto, perché all’interno di questa gabbia contrattuale possiamo fare davvero ben poco per incentivare i medici a lavorare nei pronto soccorso. I dirigenti oggi non hanno libertà di azione per dare aumenti o fare modifiche contrattuali e rendere attrattivo il lavoro».
Il 20 novembre è già stata annunciata la protesta di medici e infermieri in piazza a Roma, proprio mentre il governo sarà impegnato nella fase clou della stesura della legge di bilancio. Secondo i calcoli dell’Anaao Assomed, servirebbero almeno venti miliardi per rimettere in sesto tutto il servizio sanitario. Ma i medici chiedono anche la depenalizzazione dell’atto medico, che costringe molti professionisti – soprattutto quelli di pronto soccorso – a dover pagare di tasca propria costose assicurazioni per mettersi al riparo dalle continue denunce. Il ministro Schillaci nel 2023 aveva annunciato la depenalizzazione, ma poi non se ne è fatto più niente. E l’Italia resta ancora uno dei tre Paesi al mondo, insieme a Polonia e Messico, in cui il medico può essere condannato anche per omicidio in caso di errore.